Informazione nel mirino. Querele, Intimidazioni, Minacce. Accade in Europa

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Cos’è la libertà di espressione? Procedendo in modo deliberatamente schematico possiamo coglierne due aspetti. Il più semplice è il primo, consiste nella possibilità di esprimere liberamente le proprie opinioni: ognuno può dire quello che pensa senza che la polizia la mattina dopo vada a prenderlo a casa. Il secondo è decisamente più complicato, riguarda la libertà di fornire all’opinione pubblica informazioni utili sui comportamenti dei potenti, quelli che prendono decisioni. Qui le cose si diventano subito incredibilmente più intricate perché alle autorità, pure dove si può parlare liberamente, non piace che si documenti quanto hanno fatto, che si svelino i loro segreti, le loro eventuali malefatte.

In Italia, per minacciare reporter scomodi, chi governa usa come arma abituale le cosiddette querele temerarie. Davanti a una notizia sgradita i nostri governanti hanno ormai la denuncia facile: citano in giudizio il cronista, chiedono risarcimenti esorbitanti a scopo intimidatorio. Magari non riescono poi a ottenere molti soldi ( da qui il senso dell’aggettivo temerarie) ma intanto mettono paura, costringono chi ha scritto o parlato a trovarsi un avvocato, a difendersi in tribunale.

Nella vicina Francia però le cose vanno ancora peggio. La prima storia che merita di essere riferita è quella di Ariane Lavrilleux, una giornalista investigativa nata nel 1987 a Nantes. Guardando il suo volto e ascoltando le sue parole nei video diffusi in Rete si colgono la postura e le espressioni di una giovane donna decisa ma non certo arrogante, una che crede nel suo lavoro al servizio della comunità. Il 19 settembre scorso Ariane ha avuto una brutta sorpresa: all’alba l’hanno svegliata degli agenti di polizia che l’hanno prelevata dalla sua casa di Marsiglia e portata in commissariato. Qui la reporter è rimasta in stato di fermo per quasi due giorni in condizioni non certo confortevoli, lasciata in camera di sicurezza un’intera notte senza acqua e assistenza. Solo la mattina seguente l’hanno a lungo interrogata gli uomini della Dgsi, la Direzione Generale di Sicurezza, in pratica i servizi segreti che dipendono direttamente dal ministro degli Interni. E’ stata rilasciata dopo 39 ore di detenzione mentre nella sua abitazione ben nove agenti avevano a propria disposizione tutto il tempo necessario per “leggere” e setacciare, con strumenti informatici all’avanguardia, i suoi computer e telefoni. Ma cosa aveva fatto Ariane per “meritare” questo trattamento da spia internazionale?

Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro al novembre 2021 quando il sito investigativo Disclose, al quale la Lavrilleux collabora, ha pubblicato i cosiddetti “Egypt Papers”. Si tratta di un’inchiesta molto dettagliata sui rapporti fra il governo francese e l’azione repressiva dell’Egitto di Al Sisi ai danni degli oppositori del regime e che prova la complicità della intelligence transalpina con i militari egiziani nella esecuzione della cosiddetta Operazione Sirli, il bombardamento con attacchi aerei di civili inermi, un atto criminale in base al diritto internazionale. Disclose era riuscita a ottenere centinaia di documenti secretati con un lavoro giornalistico di indagine accurato al quale ha partecipato anche Ariane. E cosa volevano sapere da lei i servizi segreti autori del fermo? La risposta è intuitiva: volevano costringerla a rivelare la fonte. Alle domande degli inquirenti lei ha reagito avvalendosi del segreto professionale ma due giorni dopo il suo fermo un ex militare francese è stato incriminato come fonte dell’inchiesta, con tutta probabilità grazie ai file e ai messaggi rintracciati sui supporti informatici della giornalista. Un’ultima annotazione importante: durante l’interrogatorio Ariane Lavrilleux ha capito di essere stata a lungo, a sua insaputa, sotto sorveglianza, ben prima del fermo, tutto con procedure di legalità molto dubbia.

E qui è bene fermarsi. E spostare l’attenzione sul Presidente Macron che si proclama liberale e che probabilmente si sente anche veramente tale. A luglio di quest’anno ha presentato gli Stati Generali dell’Informazione. Con la consueta enfasi propria della “monarchia repubblicana” francese nel sito dell’Eliseo si legge che “un’informazione libera, affidabile e indipendente è una delle condizioni della democrazia”. E da dove viene allora la minaccia? Ma da fake news, deepfake ( immagini e video contraffatti), intelligenza artificiale, modelli consumistici basati solo sul profitto. I lavori di questi Stati Generali, iniziati ai primi di ottobre, proseguiranno fino a metà 2024 per “definire un piano di azione per l’era digitale”. I giornalisti francesi non hanno preso benissimo tutta questa enfasi riformatrice per una ragione evidente: se un governo sbandiera il tema della libertà di informazione dovrebbe essere un minimo coerente. Ci sono in particolare un paio di questioni che mettono in discussione i “buoni propositi” di Macron. Da un lato c’è la distribuzione delle risorse pubbliche che rischia di premiare le concentrazioni editoriali, dall’altro il tema dei diritti di chi l’informazione la fa. Quersto perché, nel frattempo, non c’è stata solo la vicenda di Disclose, storia peraltro tutt’altro che conclusa. Nelle stesse ore del fermo di Ariane anche tre cronisti del quotidiano Liberation, Fabien Leboucq, Ismaël Halissat e Antoine Schirer, sono stati convocati dalla “brigade criminelle” della polizia giudiziaria di Lille per essere interrogati sulle fonti di una loro inchiesta. Un articolo in cui si ricostruiva l’uccisione da parte delle “forze dell’ordine” nell’agosto 2022 di un giovane di 22 anni Amine Leknoun e si parlava anche di come le indagini successive condotte dagli inquirenti fossero state quantomeno lacunose.

Qui bisogna fare attenzione. Prima abbiamo parlato di uno dei lati oscuri della politica estera di Macron, lo stretto rapporto di cooperazione con le dittature africane, in particolare con l’Egitto di Al Sisi al quale nel dicembre 2020 è stata conferita addirittura la più alta delle onorificenze, la Legion d’Onore, in una curiosa cerimonia interdetta ai media francesi ma rilanciata con enfasi dalla tv egiziana. Ma c’è un secondo lato “tenebroso” della vita pubblica transalpina: quello dei comportamenti sempre più violenti della polizia francese ai danni in primo luogo dei giovani figli di immigrati. E’ una situazione veramente torbida che coinvolge vari soggetti, dal ministero degli interni alle forze politiche di estrema destra pronte a dare copertura politica a qualunque abuso. Pure su questi temi ( ecco il messaggio che sta dietro gli interrogatori dei tre cronisti a Lille) è meglio che i media non indaghino se non vogliono avere guai. Ma allora, tornando al punto, di quale libertà di stampa stiamo parlando?

Sbaglieremmo se pensassimo che la faccenda non ci riguardi. Per due motivi. Perché certe pratiche sono presenti pure da noi, basti vedere la dichiarata volontà del governo di rimettere in discussione il reato di tortura, oppure pensare a quei politici che affermano di stare sempre e comunque dalla parte delle forze dell’ordine a prescindere dai fatti e dai comportamenti accertati dalla magistratura. E poi perché non ci deve sfuggire la dimensione europea di questa problematica.

Eccoci a un altro passaggio importante di questa ricostruzione. Per focalizzare il discorso dobbiamo spostarci a Strasburgo dove ai primi di ottobre il Parlamento Europeo ha votato a schiacciante maggioranza l’European Media Freedom Act, la legge sulla libertà e trasparenza dei media. Come sempre accade in questi casi si tratta di un provvedimento multiforme che dovrà essere oggetto di trattative con gli altri organismi comunitari e sarà successivamente adottato dagli Stati nazionali in forme che sono tutte da definire. Non dobbiamo dimenticare che nella UE c’è pure l’Ungheria di Orban che vede l’indipendenza dei media “come fumo negli occhi”.

Comunque nella legge votata “ci sono anche cose buone” a sostegno del pluralismo e della protezione dei cronisti rispetto a interferenze governative, politiche o economiche. Propositi importanti che riguardano proprio le pressioni esercitate sui cronisti per costringerli a rivelare le fonti. Tutto bene allora? Non è così perché è stato accolto un emendamento che prevede una deroga per la “sorveglianza dei giornalisti con software spia” per motivi di sicurezza nazionale, per reati gravi come il terrorismo e la tratta di esseri umani. E chi ha insistito di più perché fosse inserito questo punto? Se siete arrivati fin qui nella lettura di questo articolo la risposta l’avete già intuita. E’ stata la Francia che proprio in base a accuse connesse al terrorismo ha operato il fermo di Ariane Lavrilleux.

Così il cerchio si chiude. I tasselli del mosaico ci sono tutti. Emergono due questioni. Siamo su un terreno dove il manicheismo occidentale ( noi siamo il bene, gli altri il male) dimostra tutta la sua debolezza e ipocrisia. All’improvviso spuntano dittatori cattivi, da contrastare con ogni mezzo, e dittatori buoni con cui invece si fanno accordi, affari ( il commercio delle armi è un altro dei campi su cui indaga Disclose) operazioni segrete. Si chiudono entrambi gli occhi davanti ai peggiori assassini purché questi siano “nostri alleati”, non viene rispettato il diritto internazionale e nemmeno la vita dei civili. Come insegna in primo luogo il caso Assange i governi “democratici e liberali” tentano di impedire con ogni mezzo che di queste cose si parli e sono estremamente vendicativi contro chi fa uscire notizie sgradite. La seconda questione riguarda il diritto dei cittadini a conoscere quanto fanno i propri governanti, che decisioni prendono, quali effetti hanno queste scelte, come vengono spese le risorse dello Stato. Il punto va colto perché se in vicende come quella di Ariane Levrilleux e dei tre cronisti di Liberation fossero in discussione unicamente privilegi professionali della categoria dei giornalisti la cosa avrebbe un modesto interesse pubblico. Il tema assume tutta un’altra colorazione se pensiamo invece alla democrazia come un sistema dove il popolo ha quantomeno il diritto di sapere prima di essere chiamato a decidere. E quale altra strada c’è per ottenere queste informazioni se le organizzazioni professionali, che si assumono e poi svolgono il compito di indagare, vengono intimidite, spiate, minacciate? La domanda vera da farsi è questa. Quando si parla di libertà di informazione contano i fatti concreti, i comportamenti reali del potere, non le parole. Troppo facile dire che il problema sono le fake news provenienti da altri e denunciare rischi per la vita democratica in modo vago, generico, ingannevole.


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