Anche a Gaza si parli di pace

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Ci vorrebbe forse la meravigliosa levità di Luca Goldoni, scomparso ieri all’età di novantacinque anni, per raccontare l’abisso che sta inghiottendo, ancora una volta, Gaza e dintorni. Ci vorrebbe il genio di uno come lui, che nel ’68, per sfuggire alle intercettazioni e alla conseguente censura dei servizi segreti durante l’invasione della Cecoslovacchia, dettava le corrispondenze dalla Praga invasa dai carri armati sovietici in dialetto parmigiano. Invece siamo qui a interrogarci su quest’ennesima mattanza che sta avendo luogo nei territori contesi fra israeliani e palestinesi, e sono lontani anni luce gli accordi di Oslo del settembre del ’93 che valsero il premio Nobel ai leader dei due paesi, Rabin e Arafat, in nome di una speranza di pace ormai svanita. Al che, bisogna interrogarsi. Perché certamente Hamas è un’organizzazione più che discutibile, come più che discutibile è il governo Netanyahu, con annessi alleati imbarazzanti, ma il vero problema è la deriva estremista, oscurantista e retrograda che si sta impadronendo del mondo, rendendo impossibile, a ogni latitudine, qualsivoglia prospettiva di convivenza civile.

Non ci siamo chiesti, e questa è la nostra colpa come occidentali, per quale motivo si sia arrivati a questo punto. Non ci siamo chiesti perché siano così distanti, anche nella memoria e nell’immaginario collettivo, i tempi del vertice di Camp David, eppure era il 2000, ventitré anni fa, con Clinton, Barak e Arafat a passeggio in una delle residenze del presidente degli Stati Uniti in cerca di un’intesa duratura. Allo stesso modo, non ci siamo domandati come sia stato possibile che il Paese che fu guidato, per decenni, dai labouristi sia finito nelle mani dell’estrema destra, con i coloni scatenati e un progetto di occupazione senza pietà dei territori palestinesi, inasprendo la situazione fino a far saltare ogni possibile intesa, oltre a rendere impossibile il concetto stesso di moderazione e dialogo all’interno di un popolo che si sente sotto assedio. Il che, ribadiamo, non giustifica i razzi, la violenza, i soprusi e le ingiustizie, nulla di tutto questo, ma li spiega storicamente, e il nostro compito non è puntare il dito e giudicare ma aiutare chi legge a capire perché ci troviamo sull’orlo del baratro. L’indignazione a buon mercato la lasciamo ad altri, così come la prospettiva dei due popoli-due stati, che sarebbe l’ideale ma non ci è mai sembrata così lontana.

Ciò su cui dovremmo ragionare, noi occidentali, sono le conseguenze di questa escalation. Spiace dirlo, ma questa non è una semplice guerra, come tante ne abbiamo viste a quelle latitudini. È una rivolta, la rivolta dei paesi del Terzo mondo contro la nostra colonizzazione, la nostra ferocia, i nostri ladrocini, le nostre ingiustizie e la nostra imposizione di un modello sociale, eonomico e di sviluppo sempre più insostenibile. Sono meglio Russia e Cina? No, ma questo non è un derby fra barbari. È evidente, tuttavia, che questa parte del pianeta non possa essere ulteriormente ignorata, come non può essere ignorato il grido di chi si ostina a chiedere quanto meno una tregua in Ucraina, perché tutto si tiene e sbaglia chi pensa che i vari conflitti non siano correlati.

Le storie individuali, per quanto strazianti e da mettere in evidenza, non spiegano il contesto, non illuminano la realtà che è sotto i nostri occhi e non aiutano ad affrontare il discorso con la dovuta lucidità. Bisogna, piuttosto, mettere a fuoco il disfacimento del mondo al crepuscolo della globalizzazione dissennata, ipotizzando una conferenza di pace che solo l’Unione Europea, se esistesse e avesse la coesione e l’autorevolezza necessaria, potrebbe organizzare.

L’unico errore da non commettere, per nessun motivo, è quello di dividersi in inutili fazioni nazionali, utilizzando una carneficina dai risvolti globali per provare a regolare i conti in chiave elettoralistica. Non solo: bisogna contrastare con la dovuta fermezza anche chi evoca lo “scontro di civiltà”, peraltro senza possedere la capacità analitica di Huntington, come accadde all’indomani dell’11 settembre, quando bastava esprimere un minimo dubbio in merito a quella che anche fior di interventisti di allora definiscono oggi “overreaction” per essere bollati come fiancheggiatori di bin Laden.

Non dobbiamo rassegnarci all’odio, all’orrore, alle parole cariche di furia, al razzismo, alla discriminazione e alla divisione manichea del pianeta in buoni e cattivi, dove i buoni sono sempre gli amici nostri o quelli che ci somigliano e i cattivi sempre gli altri. Dobbiamo capire, finalmente, che il mondo del Ventunesimo secolo è multipolare, multietnico, complesso, articolato, con molteplici blocchi che si contrappongono e un crescente bisogno di prendersi per mano. E no, non si tratta di suppliche papiste ma di una seria analisi geo-politica, dell’unica, nonché ultima, possibilità che abbiamo per scongiurare la catastrofe finale. Dopo sarà il massacro e, proprio per le dimensioni dei fronti bellici aperti, non si salverà nessuno.


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