Sfiorata dalla violenza. Sono una donna cui è andata bene!

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C’è imbarazzo, talvolta vergogna, molto spesso paura a raccontare. Ma credo ferma nel valore potente della parola. Ho sempre detto, raccontato, prima che per professione per indole.
Esterno notte di un 20 agosto, ore 1.30 a due passi dal mare, Torre Lapillo di Porto Cesareo (Le), via Palmieri. La via di casa mia, in questo periodo più che mai animata, popolata, illuminata. Ero appena tornata da una cena, sola. In auto. Avevo spento il motore, il bar di fronte aveva chiuso da poco, qualcuno alla spicciolata raggiungeva la strada dal mare (perché a dieci metri da casa c’è spiaggia libera, siamo in centro, c’è sempre viavai). Ero tranquilla come mille altre volte, perché è una zona tranquilla. Ma stanotte ho avuto paura, ma tanta che la condiviso né per vittimismo né per spettacolarizzazione. Vi consegno una foto della realtà di questi tempi balordi, la paura di tante donne, il prima di tanti episodi di cronaca che vanno avanti fino ad epiloghi terribili.
Ero in auto, scrivevo.
Dalla spiaggia sono arrivati due uomini tra i 30 e i 40 anni. Uno più alto e magro. Erano fradici, di acqua post bagno e di alcol. Perché a tratti barcollavano. Uno mi ha visto in auto (prendevo le mie cose) e ha detto: “quista mo’ nni la facimu”. L’espressione è questa, inutile edulcorare. L’altro ha risposto: “none, camìna. Nu me sta coddra moi”.
Mi sono pietrificata, si è tagliato il respiro, ho mantenuto il sangue freddo mentre pensavo a cosa fare. Chiamare casa (abito su), chiamare i carabinieri, mettere in moto e suonare il clacson.
E soprattutto piano piano, senza dare nell’occhio, mentre loro sgusciavano qualche metro oltre la mia auto, ho messo giù le sicure.
C’è sempre gente sotto casa, ma in quel momento c’erano solo quei due vermi.
Non so se qualcuno si sarebbe fermato, sarebbe arrivato dalle case vicine, dalla spiaggia in mio soccorso.
Voglio ben sperare e ben pensare. Ora, che sto decisamente meglio e ci ho dormito (poco e male) su.
Torno ai vermi.
Quello più alto superata la mia auto ha ripreso: “sciamu, dai”.
E rideva.
Come fosse un gioco. Lo era, per loro. La degna conclusione di una serata di bisboccia.
E parlottavano come a dire, torniamo indietro o no? Facendo versi e gesti che potete immaginare e non occorre replicare qui.
Appena sono stati poco più lontani, sono sgusciata fuori dall’auto, ho percorso i due-tre metri dal cancelletto di casa che mi sembravano infiniti, fatto le scale velocemente e mi guardavo intorno e sentivo rumori che non c’erano, sono entrata a casa e sì, mi sono sentita male.
Perché lo scrivo? Perché capita, capita così, che per il gioco di qualcuno la tua vita vada a gambe all’aria.
E ti chiedi perché e il perché non c’è.
Perché siamo questo, anche. Buio e violenza.
Ed è facile da fuori, da lungi commentare, criticare, pontificare, fornire ricette: io avrei detto, avrei fatto, lei avrebbe dovuto…ma perché hai o non hai?
No, in quei momenti ti si paralizzano le mani e il respiro.
Il sangue freddo aiuta. Ma non è detto basti.
E no, non sono una donna che sta esagerando. Sono una donna a cui è andata bene.
Molte volte al giorno noi donne siamo delle sopravvissute

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