Citto, il mio fratello maggiore

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Citto era per me un fratello maggiore, quello che ti racconta, perché non vadano perdute, le storie di famiglia, le più esaltanti e le più scabrose. Di lui si parlerà molto e bene in questi giorni e non potrebbe essere altrimenti. Questo mi consente di dedicarmi al mio Citto, alle sue feste di compleanno, alla sua felicità nello scartare delicatamente i regali scandendo ad alta voce il nome del donatore; all’abbraccio con l’adorata Stefania appena Giorgio Arlorio cominciava a intonare Bella Ciao… Citto Brai; alla gioia e all’imbarazzo per il lussuoso loden di cachemire – che gl’invidiavo molto – avuto in dono per i suoi settant’anni; alla “cena dei registi” tutti i mercoledì: un rito iniziato oltre cinquant’anni fa da Otello a via della Croce e perseguito religiosamente da Citto fino al mese scorso nel ristorante Tiziano dove all’ingresso troneggia un immenso vecchio proiettore di 35 mm.

Il mio Citto è quello seduto alla sontuosa tavola apparecchiata da Stefania per la cena dell’ultimo dell’anno che, all’improvviso, inizia a cantare a bassa voce stravaganti arie di opera lirica, canzonette sconosciute degli anni trenta e truculenti canti di protesta; è il Citto che ci racconta aneddoti del suo padrino Luigi Pirandello, del venerato Visconti, del grande Toscanini che lo ospitò nella sua casa di Milano.

Nel 2000, quando dirigevo Rai Educational gli proposi di raccontare la storia del cinema italiano del dopoguerra attraverso le testimonianze dei protagonisti, dai registi ai montatori, dai direttori della fotografia ai fonici. Ebbi la malaugurata idea di dirgli che l’ispirazione l’avevo avuta durante una cena a casa sua sentendolo raccontare aneddoti e storie apparentemente inverosimili di Cinecittà. Avrei fatto bene a stare zitto perché ci costrinse a ricostruire pari pari la sua casa in uno studio televisivo trasportando oggetti giganteschi da una parte all’altra. Citto se ne approfittava: sapeva che lo stimavo e gli volevo bene. Fatto sta che nei primi mesi del 2001, quando cominciarono ad andare in onda le venti puntate di “Un luogo chiamato cinema” (successivamente distribuito dalla Rai in una collana di dieci Dvd) arrivò una diffida ai vertici aziendali da parte dell’osservatorio che controllava il rispetto della par condicio poiché risultava che Rifondazione Comunista in un mese aveva occupato più spazio di tutti gli altri partiti messi insieme, maggioranza e opposizioni. Da vero intellettuale organico e militante, Citto evidentemente non trovava nulla di strano nell’essere al tempo stesso un regista-conduttore televisivo e un dirigente di partito.

Venti anni dopo, il settembre 2021 la Biennale di Venezia annuncia che si terrà “un omaggio al regista Citto Maselli, un autore che ha attraversato con coerenza e talento molte stagioni del cinema italiano”. Da diversi anni Citto cammina a stento e allora noi, che siamo la sua corte, lo scorrazziamo sulla sedia a rotelle lungo i corridoi e le grandi sale del Palazzo del Cinema come scugnizzi allegri e impertinenti, malvisti dagli uscieri in livrea. Entriamo nella Sala Grande. Citto è circondato dalle sue donne: Stefania, Maria Teresa, Gabriella, Francesca, È felice. Gli assegnano il Premio. Noi, commossi e compiaciuti, ci facciamo e scambiamo tante buffe foto ricordo.

Dopo la proiezione di Storia d’amore, film di una struggente bellezza che non invecchierà mai, ci sediamo al bar dell’hotel Quattro fontane, l’albergo che gli riservava da cinquant’anni la stessa stanza in segno di amicizia e di rispetto. Sediamo un po’ in disparte perché Citto ha promesso di raccontarmi indiscrezioni e retroscena sugli scontri all’interno del PCI quando Secchia, il potente responsabile dell’organizzazione tentò di spodestare Togliatti con il sostegno di Stalin, e del tentativo definitivamente fallito dopo la morte di Koba, l’indomabile. Il racconto pieno di aneddoti, va oltre; passa per le ripercussioni e i drammi che seguirono dopo i fatti d’Ungheria e di Praga, le beghe intorno alle segreterie di Longo e di Natta e termina con la svolta dopo la caduta del Muro di Berlino e l’uscita dal Partito.

Citto era l’incarnazione dell’intellettuale che piaceva a Gramsci, quello “che sa mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore e organizzatore….. che giunge alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente”.  Era un intellettuale organico ma non conformista; ad esempio, amava più Antonioni che Rossellini e il neorealismo; per non parlare della distanza che lo separava dalla figura dell’intellettuale engagé tratteggiato da Sartre. Basta mettere a confronto il moralismo tormentato e irresoluto di Hugo, il protagonista delle Mani Sporche con la lucida risolutezza di Emilio, il dirigente del Partito comunista de Il sospetto. Che dire, poi degli intellettuali engagé di “Lettera aperta a un giornale della sera” che volendo andare a combattere in Vietnam finiscono annoiati a tirare calci a un barattolo?

Un ultimo bellissimo ricordo: primi anni 80, da audiofilo scriteriato (quelli che s’indebitano per avere un impianto stereofonico Hi End), organizzo in onore di Citto, un ascolto della Traviata condotta da Toscanini con conseguenti ascolti comparati di altri direttori. Il parterre è composto da esperti. Tra questi: Nanni Loy, Ugo Gregoretti, Carlo Lizzani, Ettore Scola, Ermanno Rea, Gillo Pontecorvo e Mario Monicelli. Maselli sfodera tutte le sue carte, si muove come un pesce nell’acqua ma gli altri non erano da meno nel criticare soprani e tenori, direttori d’orchestra e primi violini. Per acquietarli e metterli d’accordo ci vollero diverse ore ma io ero felice per il privilegio di vederli tutti insieme, ma anche perché nessuno aveva avuto da ridire del mio impianto.

Il passato vive solo se la memoria lo conserva, perciò Citto sarai ancora tra noi al tuo compleanno e a capodanno intorno al grande tavolo, e dopo mezzanotte giocheremo anche alla tombola con i bottoni vecchi che Stefania conserva per l’occasione. Ti vorremo sempre bene.


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