Massimo Troisi, l’antidivo che parlava all’anima 

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Massimo Troisi compie settant’anni, e noi usiamo il presente perché lo sentiamo ancora vivo, ancora con noi, ancora nei panni del postino di Neruda che ha segnato l’apice della sua carriera ma, purtroppo, è stato anche il preludio della sua morte. Perché Troisi sapeva di avere un cuore malandato ma non volle operarsi prima della conclusione del film. Sapeva di star rischiando la vita, ma la passione per il lavoro e per una storia oggettivamente travolgente ebbe la meglio. E così ci restano la grandezza e i rimpianti. Perché Massimo, in fondo, non apparteneva a nessuno, se non alle sue idee, alla sua purezza, a una gentilezza d’animo non incasellabile in alcuna categoria, se non quella dell’incanto per la vita che in scena raggiungeva il suo livello più alto.

Troisi possedeva la spontaneità dell’artista di strada, la genuinità di chi sa raccontare le molteplici sfaccettature dell’animo umano e interpretarle da par suo e, infine, la bellezza interiore di un eterno ragazzo che non ha avuto tempo di invecchiare, pensiamo quasi che non abbia voluto, per lasciarci in eredità quello sguardo da bambino, quei lineamenti profondi e scavati, quella poesia che affascinò anche Philippe Noiret e che, di sicuro, avrebbe ispirato don Pablo, se solo avessero avuto modo di conoscersi.
Massimo era l’antidivo per eccellenza. Parlava all’anima e sapeva spaziare dal comico al tragico, anche all’interno dello stesso film, dando vita al riso amaro tipico di quella generazione di artisti. La sua Napoli era la stessa di De Crescenzo, di Marisa Laurito, di Pino Daniele, di Diego Armando Maradona, la Napoli degli scudetti e della battaglia vinta contro le potenze del Nord, la Napoli dell’ironia e del riscatto, la Napoli fragile che si riscopre bella, che si specchia per una volta in se stessa e si lascia osservare dagli altri con un minimo di orgoglio. Una stagione irripetibile, sublimata dalla “Notte per uno scudetto” targata Gianni Minà, figlia di un altro servizio pubblico, di un’altra visione del mondo, di un’idea radicalmente diversa del nostro stare insieme.

Aveva una mimica impagabile, un’ironia tagliente, una capacità di far ridere anche solo con uno sguardo, un cenno del capo, una smorfia. C’era in lui lo stupore autentico di chi interpreta la vita come un viaggio, un sogno a occhi aperti, un’avventura venata di follia. Non era capace di concepire la cattiveria, non gli apparteneva. Da “Non ci resta che piangere” a “Ricomincio da tre”, la sua forza consisteva nella recitazione ma, ancor più, nell’improvvisazione, come se sentisse la battuta, in una connessione sentimentale col pubblico che lo rendeva subito uno di casa.
L’aspetto più triste della figura di Troisi è che lo rimpiangiamo tanto perché oggi non sarebbe possibile. Non potrebbe esprimere la sua comicità verace e casereccia, non sarebbe tollerata dal potere artificioso e inconsistente attuale, essendo in grado di lasciarti qualcosa dentro senza mai pretendere di dare lezioni a nessuno.
Massimo sembrava uscito da un verso di Neruda, da quella “poesia fissa alla terra, all’aria, alla vittoria dell’uomo maltrattato”. A pensarci bene, “Il postino” costituisce il suo testamento spirituale, il suo meraviglioso atto d’addio, il suo commiato dalla vita e da tutto ciò che amava, compresa la lotta degli ultimi in nome della dignità. Ci resta la nostalgia: infinita, atroce, dilaniante, proprio come la sua assenza.

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