Messina Denaro sa in quali mani sia finita l’agenda rossa di Paolo Borsellino?

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«La mafia non è sconfitta e l’errore più grave che si farebbe, è pensare che la partita sia finita». Il procuratore capo di Palermo non ci gira tanto attorno e avverte che, con la cattura del super latitante Matteo Messina Denaro, è ancora prematuro sostenere che la mafia sia giunta al capolinea. Dovremmo attendere ancora per poter finalmente “respirare quel fresco profumo di libertà”. Lo testimoniano anche i numerosi blitz antidroga e antimafia messi a segno dalle forze dell’ordine in Sicilia nei primi sei mesi dell’anno appena trascorso: 574 operazioni e 344 persone denunciate per associazione, rivela la Direzione centrale per i servizi antidroga del ministero dell’Interno. Cosa nostra non ha perso la sua forza, anche se oggi è rimasta orfana dei suoi capi. Continua a fare affari con la droga, creando alleanze con i “cugini” d’oltre Stretto, la ‘ndrangheta, «inserendosi a pieno titolo nella filiera del narcotraffico del consolidato asse Sicilia-Calabria- America Latina e imponendo il pizzo, suo strumento privilegiato per mantenere ed esercitare il controllo del territorio», dichiara ai nostri taccuini il questore di Catania, Maurizio Calvino.

Nel tempo ha acquisito la capacità di subissarsi, per poi riemergere in silenzio, senza far troppo rumore così da tenere lontana da sè l’attenzione di inquirenti e forze di polizia. Ma almeno oggi ha incassato un duro colpo, per quanto tardivo. Trenta anni, otto meno dell’altra primula rossa, Bernardo Provenzano e sei di meno del Capo dei capi, Totò Riina, arrestato pure lui dai carabinieri del Ros esattamente 30 anni fa. Si tratterà di una coincidenza, ma giusto il 15 gennaio ricorreva l’anniversario dell’arresto di Totò “U curtu”. Messina Denaro, figlio del capomafia di Castelvetrano Don Ciccio, è ritenuto tra i mandanti degli attentati mafiosi che hanno insanguinato il Paese tra il ‘92 e il ‘93, condannato per le stragi di Capaci e via D’Amelio e per gli eccidi di Roma, Firenze e Milano.  È ritenuto colpevole anche di decine di omicidi, nonché fra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, brutalmente ucciso e sciolto nell’acido da Giovanni Brusca, dopo 779 giorni di prigionia. Lunghi anni di clandestinità per i quali «non v’è dubbio che Messina Denaro abbia goduto di protezioni in passato- ha aggiunto il procuratore De Lucia-. Una fetta di borghesia mafiosa che ha aiutato questa latitanza, ne abbiamo concreta certezza e su questo ci sono indagini in corso». Nel primo giorno di inverno per Palermo, il boss di Castelvetrano è stato arrestato mentre si trovava nella clinica privata La Maddalena, per curare un tumore di cui è affetto. Si è presentato sotto la falsa identità di Andrea Bonafede e dopo aver fatto l’accettazione, esce.

E’ in quel momento che intervengono i militari, che lo arrestano senza incontrare nessuna resistenza da parte dell’uomo. “Sono Matteo Messina Denaro”, confermerà agli uomini del Gis. L’intervento del carabinieri aveva scatenato il panico all’interno della struttura ospedaliera. Paura svanita, dopo la cattura del latitante, che anzi è stata accolta subito dopo con applausi rivolti alle forze dell’ordine. «Indossava abiti e beni di lusso, al polso aveva un orologio dal valore di 30 mila euro circa- conferma il procuratore capo-. Non era armato, né indossava giubbotto antiproiettili, a conferma che si trovasse lì per un controllo come ogni cittadino». Il boss era malato da anni, si sottoponeva pure a dialisi, ma a tradirlo è stato quel cancro al colon che lo costringeva a sottoporsi a continue cure. Fra i suoi sodali, nessun Giuda, come  avvenuto invece con il boss di Corleone, per il quale a “cantare” era stato il suo ex autista, Baldassarre Di Maggio, detto Balduccio. Alla fine, è stata determinante la fragilità umana, un tumore, «che è democratico e colpisce tutte e tutti- sottolinea il magistrato. L’operazione conclude un lavoro lungo e complicatissimo che ci ha consentito di arrestare l’ultimo stragista del ‘92/’93, tenendo fede ad un debito che la Repubblica e lo Stato hanno nei confronti di tutte le vittime della mafia e dei loro familiari», alcuni dei quali erano presenti in conferenza stampa. E ora, come annunciato da De Lucia, si scava nella rete dei suoi fedeli fiancheggiatori. Per tutta la notte i carabinieri del Ros hanno perquisito quel che si sospetta essere il covo del latitante, scovato nella provincia di Trapani, a Campobello di Mazara. Ora, che l’ultimo boss dei boss è stato assicurato alla giustizia, sono tanti gli interrogativi che cittadini e familiari di vittime di mafia si pongono. Messina Denaro sa in quali mani sia finita l’agenda rossa di Paolo Borsellino? E i documenti non trovati in via Bernini, covo di Totò Riina, che fine hanno fatto? Chissà se “Diabolik” infrangerà la legge non scritta della segretezza e dell’omertà, rispettata fino all’ultimo anelito da Totò Riina.


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