L’Afghanistan vent’anni dopo 

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L’Afghanistan è la cartina al tornasole del nostro fallimento, la coscienza sporca dell’Occidente, la nostra vergogna e l’emblema del nostro disastro epocale.
Vent’anni dopo le guerre di Bush, dopo un numero sconfinato di morti, con il ritiro delle truppe ad opera del presidente Biden, l’America si lava le mani e volta le spalle a un Paese che prima ha bombardato, poi invaso e oggi abbandona a se stesso e a un futuro senza alcuna prospettiva.
Quella guerra era lurida fin dall’inizio: serviva solo ai padroni del vapore, ai fabbricanti d’armi, ai difensori di determinati interessi, all’ordine liberista globale che già allora mostrava la corda, essendo la negazione stessa del concetto di umanità, e venne spacciata invece per una missione di pace, per un’operazione in difesa delle donne, per un intervento necessario e di matrice umanitaria. Non lo è mai stato, nessuna guerra può essere benevola, ma vent’anni fa chiunque si opponesse veniva considerato alla stregua di un amico di Bin Laden e additato al pubblico ludibrio, al punto che solo l’8 per cento del Parlamento italiano ebbe la forza, il coraggio e la dignità di ripudiare questa carneficina.
Vent’anni dopo il ricco Occidente, sempre più diseguale, impoverito, fragile e in guerra con se stesso, evacua le ambasciate e rimpatria il proprio personale, lasciando i cooperanti internazionali e i civili a morire nell’inferno che noi abbiamo creato e difeso con rara pervicacia.
Le immagini degli afghani aggrappati alle ruote degli aerei in volo, destinati a precipitare nel vuoto, quei corpi senza terra e senza domani ricordano da vicino i corpi che vedemmo precipitare vent’anni fa dalle finestre delle Torri Gemelle in fiamme: la stessa disperazione, la stessa sensazione che ormai sia tutto finito.
Che i Talebani sarebbero tornati era evidente. Lo sosteneva inascoltato Gino Strada, che conosceva Kabul e il suo dramma meglio di chiunque altro, ma quando lo diceva molti lo deridevano, compresa buona parte degli ipocriti che qualche giorno fa hanno fatto sfoggio di suprema ipocrisia per piangerne la scomparsa.
Adesso è chiaro a tutti che non si possa esportare la democrazia con la barbarie, ma è tardi. L’Afghanistan ci ricorda chi aveva ragione e chi torto, fra l’estate e l’autunno di vent’anni fa. Avevano ragione i ragazzi che vennero massacrati a Genova, avevano ragione i pacifisti, avevano ragione gli idealisti, coloro che dissero no, Rifondazione, i Verdi, il Correntone dei DS, i cattolici progressisti e i Comunisti italiani. Avevano torto tutti gli altri, a cominciare dalla sinistra ufficiale, blairiana e terzaviista, prona ai dogmi del liberismo, priva di un pensiero, di un’idea alternativa e del coraggio di esprimere una visione del mondo che non fosse identica a quella della peggiore destra dal dopoguerra. Non ha senso star qui a parlarne, ma è un dovere morale, per quanto inopportuno. È bene che specie i più giovani, infatti, sappiano che qualcuno all’epoca disse no, e magari il prossimo 10 ottobre decidano di munirsi di una bandiera della pace e di venire a marciare da Perugia ad Assisi: per rendere omaggio a Gino e per ribadire che la guerra è sempre e comunque una porcheria, che crea solo nuovo orrore, che radicalizza i conflitti e che ha fornito al mondo la prova di un Occidente incapace di esercitare il proprio ruolo, in quanto divenuto ormai un carnefice senza pietà e con diritti difesi solo sulla carta.
Abbiamo assassinato una Nazione, non abbiamo portato alcuna democrazia, abbiamo mandato a morire i nostri soldati, abbiamo destabilizzato il pianeta, abbiamo devastato una regione e oggi, forse, riusciamo pure nell’impresa di consegnare un crocevia strategico per le questioni globali a Russia e Cina, ossia a due paesi che non hanno nulla a che spartire con il concetto di democrazia.
Se vogliamo evitare almeno di doverci vergognare di esistere, apriamo dunque i corridoi umanitari, prendiamoci cura delle donne, l’avamposto di ogni ferocia, le prime che pagheranno un prezzo di sangue per il ritorno dei Talebani, accogliamoli tutti e non concediamo alcuno spazio alla propaganda da birreria di personaggi che non sanno neanche dove si trovi l’Afghanistan e lucrano consenso sulle paure della gente.
Creiamo, a livello europeo, dei corridoi umanitari, abbracciamo le donne che stanno subendo l’ennesimo martirio, facciamoci carico delle ferite, nel corpo e nell’anima, che la povera gente che noi abbiamo contribuito a ridurre in queste condizioni sta subendo e approfittiamo dell’occasione per emancipare l’Europa dalle decisioni americane. Non per mancanza di atlantismo ma perché hanno scelto loro la strategia del disimpegno, dopo aver scelto la strada dell’imperialismo e dell’egemonia globale a scapito del buonsenso.
Sono serviti vent’anni perché a tutti fosse palese ciò che qualcuno denunciava, isolatissimo, nel lontano 2001. Nessuno chiederà scusa: né a loro né alle donne afghane né alle famiglie dei soldati mandati a morire in un Paese ostile e dannatamente orgoglioso. In queste considerazioni è racchiuso il senso della fine, come se ormai fosse troppo tardi per tutto, persino per piangere.

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