Informazione, stato di emergenza permanente

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Testate storiche che chiudono al Nord (Il Trentino) e al Sud (La Gazzetta del Mezzogiorno), precariato che dilaga in tutto il Paese, giornalisti minacciati e insultati, aggressioni fisiche ma anche economiche con querele “preventive” o bavaglio che dir si voglia, attacchi ripetuti all’autonomia della professione.
Come descrivere questo stato dell’informazione se non con la parola emergenza?  Sì, emergenza. Un termine che purtroppo in questo periodo sentiamo quotidianamente e non solo per la pandemia in atto, ma anche per i cambiamenti climatici, per gli incendi, per le calamità naturali, per il lavoro che non c’è e se c’è, è sempre più sottopagato e negato, per i diritti civili e sociali compressi.  Nessuna analogia, nessun paragone che potrebbe sembrare fuori luogo.  Ma che siamo in piena emergenza informazione è un dato di fatto. Anche se nessuno ne parla, anche se nessuno vuole parlarne.  A parte gli addetti ai lavori, in primis la Fnsi e le assostampa regionali, e certo anche Articolo 21.
 Ma l’opinione pubblica, i lettori della carta stampata e delle testate on line, i teleradiospettatori, il mondo dell’associazionismo, del volontariato e della cultura, le istituzioni sono consapevoli che in Italia è ogni giorno più difficile fare, garantire, praticare un’informazione libera, indipendente, professionale?
 Le grandi firme o i volti noti ospitati nei talk show di punta non rappresentano la fotografia reale dell’ecosistema complesso e frantumato che è l’informazione.  Loro sono i garantiti in una platea in cui i garantiti sono ormai una specie in via di estinzione. Lo sanno bene le colleghe e i colleghi prima de Il Trentino chiuso con una mail lo scorso gennaio, e della Gazzetta del Mezzogiorno di Bari che dal 2 agosto non è più in edicola per scelte editoriali incomprensibili.
 E poi mettiamoci una certa ritrosia da parte della categoria di far vedere lo stato reale della professione: vergogna, imbarazzo, ritegno? Fare finta di non vedere o cercare di nascondere i fatti non cambia la sostanza dei fatti medesimi. Si possono ignorare, edulcorare, falsare, ma la verità resta: esporre in vendita nelle corsie dei supermercati frutta perfetta, come ha scritto Ciconte su Domani,  non cancella le recenti grandinate che hanno annientato i raccolti e messo in ginocchio gli agricoltori. Con l’informazione succede un po’ così.
 Il Presidente della Repubblica più e più volte ha richiamato il valore costituzionale dell’informazione, il suo ruolo fondamentale nella formazione del pensiero critico e di una cittadinanza consapevole, la sua funzione di guardiano della democrazia.
 Ma il presidente Mattarella sapeva – ha saputo? – quando premiava delle bravissime colleghe e dei bravissimi colleghi freelance per le loro inchieste contro la mafia e il malaffare quanto e come venivano e vengono pagati?  Contratti da 6-700 euro al mese (tutto compreso) se va bene, 8-15 euro a pezzo nella normalità, senza tutele, senza diritti: li chiamano freelance, sono invece sfruttati da datori di lavoro che andrebbero paragonati più a caporali che a imprenditori.  La domanda da porci è: ci può essere stampa libera senza una paga dignitosa? E ancora, ci può essere libertà di stampa se viene meno il pluralismo con la morte annunciata o improvvisa di giornali punto di riferimento anche identitario di territori regionali e provinciali? E ci possono essere giornaliste e giornalisti liberi sotto lo scacco delle intimidazioni criminali, delle minacce di querele da centinaia di migliaia di euro, delle costanti aggressioni verbali e fisiche di chi scambia la democrazia con il pensiero unico cui aderisce?  Nell’ultimo World Press Freedom Index, di Reporter Senza Frontiere si legge che il giornalismo è il principale vaccino contro la disinformazione eppure viene sistematicamente ostacolato in più di 130 paesi e il Covid ha condizionato in negativo l’accesso alle notizie e la libertà dei media: l’Italia si conferma al 41. posto nella classifica del rapporto.  Conclamare lo stato di emergenza dell’informazione significa denunciare l’a-normalità, l’ir-regolarità, il dis-ordine che la caratterizza ma non da ora perché emergenza, deriva dal latino
 e- (fuori) e -mergere (affondare) e quindi si rimanda a qualcosa che viene a galla e che per farlo ci ha messo del tempo, non è un imprevisto. È da decenni che l’informazione è in crisi, altra parola chiave , dal greco krisis, scelta che rimanda a krino, distinguere. L’accezione che ne diamo è negativa però l’etimologia rimanda alla capacità di scelta, di decidere in maniera forte, netta. Ecco questo è mancato: la scelta forte, la decisione netta.  Questo manca. Sia da parte del Governo che da parte delle imprese editoriali.  La Costituzione, all’articolo 77,  stabilisce uno strumento legislativo che consente una riposta in tempi brevi all’emergenza, il decreto legge, che ben conosciamo. Usiamolo anche per l’informazione: siamo di fronte alla minaccia di un interesse pubblico, il diritto dei cittadini di essere informati, e di un interesse specifico, il dovere del giornalista di informare, entrambi sanciti dall’articolo 21 della Carta costituzionale.
 Il Governo agisca, subito, senza ambiguità senza tentennamenti. O richiami il Parlamento sulla necessità urgente di approvare disegni di legge lasciati da anni nei cassetti (equo compenso, querele bavaglio, abolizione del contratto di collaborazione coordinata e continuativa che spesso maschera rapporti di lavoro da dipendente) e di riformare il sistema del sostegno e dei finanziamenti all’editoria premiando le aziende virtuose contro in furbi e furbetti che allignano in tutti i settori.
 E poi le imprese editoriali, il Governo, le richiami alla Costituzione, all’arti 41 che se è vero che stabilisce il principio che “l’iniziativa economica privata è libera” è altrettanto vero che tale principio è bilanciato dal modo in un cui viene realizzato “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
 Utilità sociale, sicurezza, libertà, dignità umana valgono sempre e comunque, ma assumono una connotazione ancor più partecipata e inclusiva se la “merce” prodotta è l’informazione bene comune. Raccontare, narrare è la base del lavoro giornalistico: lo abbiamo fatto, lo facciamo, lo faremo. Ma non basta: l’emergenza anche quella dell’informazione esige, va ribadito, misure drastiche e risolute. Racconteremo se verranno intraprese o se non verranno intraprese. E racconteremo le storie individuali e collettive delle giornaliste e dei giornalisti di oggi, di chi perde il giornale dalla sera alla mattina, di chi fa fatica a campare, di chi si arrende e di chi non lo fa. Togliendo di mezzo alibi e reticenze.

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