La crisi brasiliana brucia altri 2 ministri e Bolsonaro rimpasta mezzo governo  

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C’è un contrasto interno ai militari che controllano il governo di Jair Bolsonaro a Brasilia, sotto la crisi che brucia ministri come una candela ardente. Dopo l’eliminazione clamorosa di Sergio Moro dalla Giustizia, i sonori malumori tra il Presidente e il responsabile dell’Economia, e i quattro scivolati uno dopo l’altro sulla Sanità, adesso se ne vanno anche il titolare degli Esteri, Ernesto Araujo, e quello della Difesa, generale a riposo Fernando de Azevedo e Silva, entrambi ritenuti fino a ieri fedelissimi del capo dello stato. Due ministri tra i più potenti dell’esecutivo indotti alla rinuncia in un solo giorno, certificano l’accelerazione della crisi.

 

La cui natura non cambia, bensì viene accentuata ulteriormente dal rimpasto che il capo dello stato ha improvvisamente compiuto ieri, lunedi, a fine giornata. Dopo la girandola di funzionari e destinazioni che ha coinvolto complessivamente 6 incarichi di prima linea, il più rilevante dei quali riguarda il nuovo ministro della Giustizia, il governo presenta una connotazione ancor più personalistica. I sostituiti vengono tutti dal gruppo degli intimi della famiglia del capo dello stato e già svolgevano funzioni di stretta fiducia presso vari uffici della Presidenza. Le reazioni del Congresso e delle forze armate a questa nuova avanzata della crisi si vedranno presto.

 

Araujo paga il coinvolgimento in prima persona nella tragedia della pandemia coronavirus che nel più grande paese sudamericano ha fatto 315mila morti tra i 13 milioni di contagiati; e il fallimento della recente celebrazione del Mercosur per il trentennale della sua fondazione. E’ in buona misura opera sua se le relazioni con l’Argentina, storico partner commerciale malgrado le antiche rivalità, attraversa uno dei momenti peggiori degli ultimi decenni. Ad aver costretto alla resa il generale Azevedo, uno degli 8 militari nel totale dei 22 ministri di Bolsonaro, sarebbe stato invece il rinfocolare delle faide interne alle forze armate.  

 

Una parte degli alti comandi militari, indicata da alcuni analisti politici come l’ala nazionalista, attribuisce ad Araujo personalmente la responsabilità di aver sabotato gli approcci peraltro sporadici tentati dal governo per acquistare vaccini anti-Covid all’estero e concretamente in Cina. Araujo è noto infatti per rivendicare una dichiarata ma mai davvero argomentata “pregiudiziale anti-comunista”, che ha finora caratterizzato la sua strategia politica. Perseguendo, fino al novembre scorso, un’identificazione con le scelte negazioniste e autarchiche di Bolsonaro e Trump, senza neanche la pur discutibile ed erratica flessibilità di quest’ultimo.

 

Con il risultato che il gigante sdraiato della lirica patriottica sta cedendo sovrastato dal Covid, che ha sbaragliato le deboli difese sanitarie, dalla contrazione finanziaria ed economica che ha moltiplicato disoccupati e povertà, e dalla crisi sempre più ampia della giustizia che tra le varie conseguenze politiche ha portato anche alla liberazione di Lula da Silva da ogni impedimento giudiziario, proiettandolo così nuovamente sulla ribalta elettoraledell’anno prossimo. In questo scenario, nelle forze armate ci sono settori che vedono motivi di rischio per la sicurezza nazionale. E inquietudini crescenti divengono manifeste anche negli ambienti della grande impresa.

 

Tradotte ormai quotidianamente -tanto per avere un’idea del clima politico che vive il paese-, in insulti pirotecnici nei giudizi politici verso il presidente della Repubblica. Sia nel Congresso, da parte di un’opposizione arrivata ormai a comprendere la galassia dei partitini di centro che fino a ieri l’altro lo sostenevano; sia tra i governatori. Tra quest’ultimi si distingue quello di San Paolo, Joao Doria, che a sua volta, dopo esserne stato potente alleato, negli ultimi tempi si rivolge al capo dello stato con epiteti che normalmente costituirebbero ovunque il reato di oltraggio. I sondaggi attribuiscono a Bolsonaro uno zoccolo duro che sfiora il 30 per cento. Gli altri gli sono tutti contro.

 

Si è così aperto il dibattito sul candidato destinato a succedergli. Lula è quello d’obbligo. Per lui le intenzioni di voto raggiungono il 40. Tratteggiandolo come l’avversario predestinato, capace di vincere se non alla prima votazione, al ballottaggio. Impedire a ogni costo una rielezione dell’ex capitano e sacerdote evangelico appare come un irrevocabile hashtag di massa. Tuttavia non basta a consacrare la candidatura di Lula. Ed egli stesso ne è ben consapevole. Nella palude centrista che determinò le condizioni politiche della sua successiva messa al bando, ma anche in diversi strati della società, perfino in qualche angolo grigio del Partidodos Trabalhadores di cui è stato fondatore e leader insuperato,permangono dubbi e in qualche caso malcelate ostilità.

 

Con le sue presidenze (2003-2010), benedette da una congiuntura economica internazionale straordinariamente favorevole, Lula ha liberato dalla povertà 28 milioni di brasiliani, rafforzato lo schema istituzionale con meglio marcate distinzioni tra i poteri dello stato. Senza tuttavia riuscire a liberare il sistema dei partiti dalla burocratizzazione e dalle sue perversioni. E’ comunque trascorso intanto un decennio. Né lui, né il paese vantano oggi le medesime energie. La globalizzazione non presenta prospettive analoghe. La società in drammatica sofferenza aspira a un rinnovamento generazionale, capace di ri-democratizzare il paese attraverso una trasparente riaffermazione dei diritti e la difesa dell’ambiente. Non può prescindere da Lula, ma non ha ancora deciso se affidarglisi interamente.


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