Acqua, bene comune. Non violentiamo un dono di Dio. Intervista a Ugo Mattei

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Il referendum del 2011 sancì con il voto popolare che l’acqua potesse essere definitivamente considerata un bene comune da tutelare e da non privatizzare. Tuttavia, sembra che quel referendum sia stato disatteso. È così? Lo chiediamo a Ugo Mattei, professore di Diritto privato all’Università di Torino e autore dei quesiti referendari per l’acqua «bene comune» del 2011.

«Sì, è così. Anche se sarebbe un grave errore affermare che quel referendum non sia servito a nulla. Partiamo però dall’oggi, da questa fase storica che potrebbe permettere nuovi investimenti nel sistema idrico grazie al programma Next Generation Eu (creato dall’Ue per sostenere i governi per i danni economici causati dalla pandemia) e che invece, ancora una volta, abbiamo deciso di non utilizzare. Inserendo trenta miliardi di euro nel programma da inviare all’Europa, avremmo forse potuto consegnare alle generazioni future un sistema idrico adeguato e senza dispersioni».

Per quale motivo non si è fatto?
«Credo che la volontà di risanare e di migliorare il nostro sistema idrico non sia una priorità governativa. Infatti è stato inserito e dedicato soltanto un breve inciso al tema idrico con la consueta attenzione rivolta solo a soggetti privati».

Questa “disattenzione” è una mancata chance o un vulnus democratico?
«Ritengo sia un fatto molto grave. Più che nel passato è necessario predisporre azioni immediate per risanare il sistema idrico, ormai obsoleto. Inoltre ritengo che sia giunta l’ora di mettere mano al monopolio idrico, perché di questo si tratta, e di consegnarlo alla gestione pubblica. L’articolo 43 della nostra Costituzione prevede che gli interessi monopolistici nel settore energetico “di prevalente interesse nazionale” possano essere governati da comitati di utenti di lavoratori in un sistema di pubblicizzazione slegato dalla rappresentanza politica e burocratica e dunque possano essere affidati a chi (stakeholder – utenti e lavoratori) intenda prendersene cura».

Solitamente non è così, anzi, gli esempi di beni pubblici affidati ai privati in Italia abbondano…
«Sì. Basti pensare al sistema autostradale. Concedere beni comuni ai privati è una coazione a ripetere quasi patologica. Una situazione che può produrre anche effetti nefasti, come ben sappiamo. Quando si afferma che il referendum «acqua bene comune» “è stato tradito”, ci si riferisce a una precisa volontà politica, quella di aver ignorato la scelta popolare. Potrebbe sembrare surreale il fatto che quel referendum sia finito nel dimenticatoio, invece è andata proprio così. Dopo un esito come quello raggiunto nel 2011 si sarebbero dovuti convocare nell’immediato tavoli di lavoro per capire come gestire l’acqua con modelli partecipati. E tuttavia senza quell’esito referendario del 2011 sic et simpliciter avremmo visto compiersi una privatizzazione di tutti i servizi di interesse economico gestiti dai comuni (privatizzandi con decreto Ronchi) imponente, per un valore di 250 miliardi; ossia più di quanto sia stato approvato oggi dall’Europa all’Italia nel Next Generation. Quella privatizzazione grazie al referendum fu fortunatamente scongiurata».

Seppur l’acqua sia il bene più prezioso che abbiamo, non riusciamo a esserne davvero consapevoli. Perché?
«Perché un bene comune prevale se prevalgono modelli di gestione dove la politica con la “P” maiuscola e la partecipazione si impongono e prevalgono sull’economia. I beni comuni, per essere tali necessitano di politiche economiche ecologiche e di libero accesso. I beni comuni si contrappongono all’idea escludente del concetto di proprietà privata. Per dirla in modo semplice, pago e dunque consumo. L’acqua in questo modo semplificato è spesso percepita come un prodotto, dunque, un bene di consumo».

A Napoli, dove lei è stato presidente dell’Acquedotto di Napoli dal 2011 al 2014, si operò diversamente…
«L’acqua dev’essere condivisa, dev’essere resa abbondante, dev’essere pulita, dev’essere risparmiata, rispettata. Dev’essere valorizzata e disponibile per tutti. È importante far capire la fortuna che abbiamo ad averla in abbondanza. Devono essere messe in campo azioni istituzionali che coinvolgano gli utenti e i lavoratori. A Napoli includemmo nel consiglio di amministrazione di AbcN (Acqua bene comune Napoli) tutti gli “attori” possibili. Creammo un piccolo “Parlamento dell’acqua”: una strategia importante, unica e tesa a far sì che l’acqua bene comune fosse gestita direttamente dalla comunità di utenti. L’acqua, per amor di verità, è in vendita da molto tempo. Basta osservare l’accaparramento delle multinazionali delle bevande per capire la portata del fenomeno. L’acqua oggi è violentata, vilipesa. Il suo valore è diventato motivo di conquiste, guerre, fughe, L’acqua è un dono di Dio, non può essere considerata come un prodotto per la vendita».

Se lo dice un laico, possiamo crederci…
«Lo dicono i fatti. La tecnologia che abbiamo oggi a disposizione non ci permette di riprodurre l’acqua. Riflettiamo su questo. L’acqua si forma grazie a processi naturali, dunque, tecnicamente, è un dono di Dio. E se tecnicamente è un dono di Dio, gli esseri umani non possono applicare all’acqua la stessa logica che applicano ai beni di consumo realizzati dalla manifattura. Se applichiamo quella logica, violentiamo l’idea stessa di natura; violentiamo un gesto unico prezioso e rivoluzionario, quello del dono».

*Ugo Mattei è il curatore del libro: La dittatura dell’economia di papa Francesco (Jorge Mario Bergoglio), Editore: EGA-Edizioni Gruppo Abele, con la prefazione di Luigi Ciotti


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