Sostenere il linguaggio inclusivo anche in epoche di Covid19 e oltre

0 0

Le parole sono importanti, e lo sono ancora di più in tempi difficili come quello che stiamo vivendo a causa del coronavirus. Il linguaggio si basa sulle parole, le parole che si scelgono per nominare e descrivere gli eventi, i fenomeni e le persone, parole che producono conoscenza (o non conoscenza) e pensiero. Il linguaggio non è uno strumento neutro, esso dà voce e corpo al modo con cui le persone pensano, interpretano la realtà e agiscono ogni giorno. Ed esso può essere anche un veicolo finalizzato a riprodurre e perpetuare pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni, hate speech e stimolare aggressività, manipolazione, marginalizzazione.

In questo periodo di pandemia un linguaggio a cui siamo stati esposti si è caratterizzato per un marcato ricorso a parole associate alla “guerra” probabilmente con l’idea, come sottolineato da Sala e Scaglioni (2020), di “mantenere una società unita nel tempo”, che combatte sia nelle prime linee, quelle degli ospedali, che nelle case di tutti i cittadini, a vari livelli. Tra le parole maggiormente usate ritroviamo ad esempio: “Infermieri in trincea”, “medici in prima linea”, “mascherine e guanti, le munizioni necessarie per combattere questa guerra”. Il virus è diventato il nemico da combattere (Sala, 2020), e il centro di una narrazione capace di condizionare il dibattito pubblico e i comportamenti individuali, ma anche di distogliere l’attenzione da quei fattori socio-economici che stanno alla base di ciò che sperimentiamo. E a ciò contribuiscono le fake news, ossia parole, notizie, informazioni che sono intenzionalmente e verificabilmente false, o che riprendono notizie vere omettendone però parti fondamentali o inserendole in un contesto che ne forza il senso e l’interpretazione, come ci ricorda Reale (2019) nel libro La passione per la verità, Come contrastare fake news e manipolazioni e costruire un sapere inclusivo; si pensi ad esempio alla notizia circolata su un assembramento di runners sul ponte dello stretto di Messina (ad oggi non esiste alcun ponte sullo stretto) che ha suscitato lo sdegno di molte persone e commenti aggressivi, oppure alla notizia circolata secondo la quale tecnologia dei telefoni cellulari 5G è collegata alla pandemia di coronavirus, o ancora la notizia che l’assunzione di grandi quantità di aglio potesse guarire dal Covid19. Oltre a ciò, come sottolineato in un recente articolo di Pedroni (2020), l’infrastruttura retorica alla base della metafora bellica ha creato nuove forme di etichettamento che possono essere esemplificate nella figura del “runner senza mascherina” o l’allontanamento di coloro considerati “gli untori”, i “fuorilegge”, o i “bambini appestatori”. Queste nuove etichette nate in epoca Covid-19 si vanno a sommare all’utilizzo di termini definiti altamente stigmatizzanti che già conosciamo, come “disabile”, “handicappato” che sono apparse anche di recente nei media riportanti titoli quali “Coronavirus, le priorità per i disabili nella fase 2”, “Figli e familiari disabili si confermano, per il governo, un ‘problema’ di chi li ha“, “Come Covid-19 ha declassato anziani e portatori di handicap”.

Numerosi sono i dati presenti in letteratura che enfatizzano il ruolo negativo delle parole utilizzate e, come sottolineato anche nel libro Diritti Umani ed Inclusione (Santilli, Di Maggio, & Ginevra, 2019) dell’etichettamento, processo attraverso il quale le parole vengono associate per classificare, definire in modo approssimativo e superficiale una serie di caratteristiche spesso con carattere negativo che ingabbiano la persona in una determinata categoria sociale. Il tema dell’etichettamento non riguarda soltanto il nostro tempo, come segnala lo stigma che in tutte le epoche ha contrassegnato chi è ritenuto impuro o contaminante o con qualcosa che non va, come ad esempio la persona con storia di migrazione, la persona con disabilità, ed oggi la persona contagiata da Covid. Così comprendere a fondo come funzionano le etichette, può essere l’occasione per imparare ad evitarle e intraprendere la via di un linguaggio più attento e stimolo di relazioni eque e solidali. La tendenza a categorizzare gli individui sulla base di uno o più elementi che si considerano di fatto inadeguati (la presenza di malattie e di menomazioni, di difficoltà nello svolgimento di attività ritenute importanti, il non avere le nostre stesse radici storiche e cultuali, o l’essere stati infettati dal virus) e a trascurare gli aspetti positivi che posseggono e le differenze che esistono anche all’interno dei loro gruppi di appartenenza, è, come noto, alla base dei pregiudizi e degli stereotipi che riducono drasticamente le possibilità di convivenza rinforzando le occasioni di conflitto e di incomprensione.

Di fatto l’utilizzo di etichette porta con sé tre principali processi negativi: 1) la deindividualizzazione, ovvero l’enfasi sulle caratteristiche prototipiche e stereotipiche dei membri del gruppo a cui la persona viene associata, e la scarsa attenzione alle sue particolarità individuali. Tale processo può essere molto pericoloso in quanto, ad esempio, una studentessa con menomazione o con una malattia virale può essere giudicata e trattata in base alla sua etichetta diagnostica (che enfatizza, tra l’altro, i deficit) piuttosto che per le sue caratteristiche peculiari e positive (punti di forza); 2) la stigmatizzazione, ovvero l’enfasi sugli aspetti negativi. L’essere etichettato come ‘straniero’, ‘disabile’, ‘difficile’, ‘grasso’, ‘brutto’, ‘povero’, ‘infettata’ comporta la propensione sia della persona stessa che degli altri a dare attenzione agli aspetti negativi, tanto da influenzare negativamente i livelli di qualità della vita e le interazioni sociali; 3) la distanza tra gli individui, ovvero la tendenza sia delle persone etichettate che degli altri a considerare le prime come appartenenti a gruppi diversi e spesso in contrapposizione a tutti gli altri. La tendenza a etichettare gli individui, sulla base di uno o più elementi che si considerano di fatto inadeguati, può suscitare emozioni negative come rabbia, paura e pietà che, a loro volta, possono favorire comportamenti aggressivi o di distanza sociale, riducendo le possibilità di convivenza e di vicinanza. A sua volta, l’utilizzo sistematico di tali etichette può comportare per la persona a cui è rivolta: 1) la ristrutturazione della propria immagine di sé che diventa sempre più simile a quella attribuita allo stesso dal contesto sociale di appartenenza; 2) la modificazione dei propri comportamenti che, sulla scia di una “profezia” che tenderebbe ad auto avverarsi, diventano sempre più in sintonia alle aspettative sociali arrivando, paradossalmente, a confermare l’etichetta; 3) tendenza all’isolamento ed emarginazione sociale. L’individuo si trova via via a essere escluso da specifici ambienti sociali e per tale ragione è spinto, al fine di sfuggire all’isolamento, a ristrutturare il proprio contesto che diventerà pertanto popolato da persone che sono considerate dallo stesso e dalla società più simili alla nuova immagine di sé.

Il nuovo paradigma sociale dell’inclusione, che prende le mosse dai cambiamenti socio-economici che caratterizzano la società della complessità, della globalizzazione e della multidiversità, pone in primo piano la necessità di costruire relazioni positive, che facilitino la promozione di abilità come l’argomentazione, la riflessione e l’analisi complessa dell’informazione, necessarie per l’inclusione, la solidarietà e la cooperazione delle persone, con o senza disabilità, vulnerabilità o infezioni virali nei loro diversi e naturali contesti di vita. Per facilitare ciò, il ricorso ad un linguaggio inclusivo può essere importante in quanto, nei confronti di alcune persone, perdura il ricorso ad etichette ed espressioni obsolete e offensive che continuano, soprattutto quando sono presenti nei media e nei documenti amministrativi e nelle leggi che dovrebbero regolamentare l’inclusione, ad influenzare negativamente la ‘rappresentazione sociale’ delle stesse e a diffondere immagini stigmatizzanti e visioni distorte.

È quindi fondamentale aumentare la consapevolezza dell’importanza del linguaggio e migliorare l’utilizzo delle parole in tutti gli ambiti della vita.

La nostra Università da tempo è impegnata nella promozione di contesti inclusivi, e tale impegno è stato anche siglato in una lettera inviata nel 2018 dal Magnifico Rettore a tutto il personale docente, tecnico amministrativo e agli studenti e studentesse del nostro ateneo, all’interno della quale si rimarca che “una delle evidenze di questo impegno è certamente il linguaggio che utilizziamo,

sottolineare il valore dato all’essere umano e al fatto che un attributo che lo caratterizza, la disabilità, riguarda solo parte di esso e della sua vita” (https://www.unipd.it/inclusione/linguaggio-inclusivo) e sottoscritto anche nelle Politiche linguistiche per la comunicazione locale e globale approvate da Senato Accademico del nostro Ateneo nel 2019. E così al posto delle etichette appare evidente che i modelli concettuali di tipo inclusivo ci invitano in primo luogo a utilizzare il nome e il cognome della persona evitando altre
sottolineature ed evidenziazioni (es. Marco Rossi; Abha Kumar). Nel caso con cui sia necessario mettere in evidenza alcuni aspetti dell’individuo e non se ne possa fare a meno, considerando
quanto suggerito dall’approccio People-first language è importante allenare le persone a descrivere gli altri utilizzando il verbo avere, così da portare l’attenzione su ciò che uno o una «ha», e non il verbo essere, ad esempio, “Ludovica ha l’autismo” e non “Ludovica è autistica”, “Gianni ha una infezione virale” e non “Gianni è infetto”.

Oggi più che mai, la lingua e il linguaggio, assumendo queste connotazioni, possono favorire e accellerare le trasformazioni sociali, forme di ri-generazione, di costruzione di società inclusive, eque e sostenibili, democratiche e capaci di dare valore ad una cittadinanza partecipata da parte di tutti e tutte.

Riferimenti Bibliografici

Pedroni, M. (2020). Narrazioni virali. Decostruire (e ricostruire) il racconto dell’emergenza coronavirus. Mediascapes journal, (15), 24-43.

Reale, R. (2019). Fare la Verità. In L. Nota (Ed.) La passione per la verità: Come contrastare fake news e manipolazioni e costruire un sapere inclusivo (53-71). Milano: FrancoAngeli.

Sala, M. (2020). Dall’epidemia all’infodemia: l’informazione all’epoca del Coronavirus. In M. Sala, M. Scaglioni (Eds.), Laltro virusComunicazione e disinformazione al tempo del Covid-19 (137-144). Milano: Vita e Pensiero.

Sala, M., Scaglioni, M. (2020). Laltro virusComunicazione e disinformazione al tempo del Covid-19. Milano: Vita e Pensiero.

Santilli, S., Di Maggio, I., Ginevra, M.C. (2019). Il linguaggio dell’inclusione. In L. Nota, M.Mascia, T. Pievani (Eds.), Diritti umani e inclusione (119-150). Bologna: Il Mulino.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21