Mazen Alhummada: “Io scappato dall’Inferno, vi racconto la verità sulla detenzione in Siria”

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C’è’ Gesù Cristo in croce in una delle chiesette di via Mezzocannone (nel centro storico di Napoli) e, davanti al simbolo del cristianesimo, ecco un altro emblema della resistenza pacifica che piange a singhiozzi, mentre attorno, un pubblico commosso non pensa più al vento freddo del Natale e la “globalizzazione dell’indifferenza”, come disse Papa Francesco in uno dei suoi primi discorsi, si ferma davanti al racconto dell’orrore. Lui è Mazen Alhummada, ex prigioniero, sopravvissuto alle torture, del girone dell’inferno dell’ospedale militare “Branca 601” di Damasco. 40 anni, ingegnere petrolifero di Deir Al Zour (città di duecentomila abitanti nell’est della Siria), viso esile, mani febbrili, sguardo fiero, nonostante qualcuno avesse deciso di piegarlo. Mazen aveva giurato che se fosse uscito vivo da quel lager avrebbe raccontato a tutto il mondo, quello che accadeva, e ancora si sta perpetuando, nelle carceri siriane del regime di Bashar al-Asad. In questi giorni, infatti, la sua testimonianza accompagna il tour italiano di “Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura”.

La mostra, esposta fino al 18 dicembre a Napoli nelle Sala delle Terrazze di Castel dell’Ovo e già ospitata al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, al Memorial dell’Olocausto a Washington, al Parlamento Europeo di Strasburgo, a Westminster, a Parigi, Boston, Dublino e, in Italia, al Maxxi di Roma, è una selezione delle immagini scattate da Caesar, pseudonimo che protegge l’identità di un ex fotografo della polizia militare del regime siriano, il cui incarico, dal 2011, era quello di fotografare i corpi dei detenuti uccisi dalle torture nelle carceri siriane. Per due anni, Caesar ha fatto copie delle immagini su chiavette USB e, nel 2013, ha disertato, portando con sé in Occidente le copie delle fotografie. La magistratura francese, sulla base delle informazioni fornite da Caesar, ha aperto un procedimento per crimini contro l’umanità nei confronti del regime di Assad, e iniziative analoghe sono in corso in Spagna e in Germania, mentre il Congresso degli Stati Uniti ha appena votato una legge al riguardo.  Crimini contro l’umanità che Mazen ha vissuto tutti sulla propria pelle. “Sono stato arrestato tre volte dal regime siriano – racconta – a partire dal novembre del 2011.

La più dolorosa fu quella del primo marzo del 2013. Perché ho subito il carcere? Perché come tanti altri siriani stavo manifestando pacificamente, scendendo in piazza, per chiedere libertà e dignità, il sostegno del sogno del popolo siriano di avere uno stato di diritto, basato sulla costituzione, e leggi che pretendessero e garantissero l’autodeterminazione e proteggessero tutti, senza nessuna distinzione”. Un calvario durato un anno e sette mesi, dove non è stato ucciso, ma “la sua anima è morta lì”. Ha visto almeno mille persone ammazzate, anche suo nipote; ha dormito tra i cadaveri, in celle più piccole di un mattatoio. Fu detenuto solo perché stava portando con sua sorella e due nipoti latte in polvere, destinato a bambini del sobborgo ribelle e sotto assedio di Douma. E poi anche lui ha subito la sua croce in tre giorni di agonia: la prima cosa che gli hanno fatto è rompergli le costole, poi lo hanno incatenato. “Mi hanno alzato a 40 cm da terra – racconta, mentre guarda nel vuoto – con delle manette che sembra ti stacchino le mani, perché lacerano le carni, mi hanno infilato una scarpa in bocca perché non gridassi, quando ero appeso mi hanno inserito ferri arroventati nelle gambe, mi hanno picchiato con bastoni, buttato addosso acqua bollente, torturato con fili elettrici… Il terzo giorno mi hanno stretto i genitali in una morsa, stretta finchè non confessassi. Sono stato anche sodomizzato con degli oggetti metallici”.

Tecniche di tortura che “costringono ovviamente tutti a confessare, anche quando non è stato commesso niente”. Poi un giorno, dopo tanto strazio viene liberato. Un giudice si commuove davanti ai segni di quelle atrocità; così Mazen Alhummada si rifugia in Olanda, dove vive tenendosi in contatto con le organizzazioni di resistenza e testimoniando ogni giorno la verità del suo popolo, anche con appelli in internet. “Quando sono uscito di prigione nel 2014 – racconta, con la voce rotta dalle lacrime – il mio primo pensiero è stato,  così come avevo promesso ai miei compagni, di fare sapere quello che stava accadendo. Ho trovato il mio paese distrutto, prima che fossi detenuto, la mia città era animata da proteste non violente, poi l’ho vista occupata dall’Isis e sotto i bombardamenti. A quel punto sono stato costretto a scappare in Europa per due motivi, il primo per la mia sicurezza personale, il secondo per rendere noti i crimini che venivano commessi in Siria. Mentre parliamo ci sono ancora cinque miei parenti in carcere e non so se sono vivi o morti”.

Pochi giorni fa l’appello di Bergoglio. “Ad Aleppo sta morendo la civiltà”, aveva detto chiaro all’Angelus Papa Francesco, prima di scrivere al presidente siriano, Bashar al Assad, per chiedergli fermamente il rispetto del diritto umanitario internazionale. “Ogni giorno sono vicino – ha ancora detto il Papa – soprattutto nella preghiera, alla gente di Aleppo. Non dobbiamo dimenticare che Aleppo è una città, che lì c’è della gente: famiglie, bambini, anziani, persone malate… Non possiamo accettare che questo sia negato dalla guerra, che è un cumulo di soprusi e di falsità. Faccio appello all’impegno di tutti, perché si faccia una scelta di civiltà: no alla distruzione, sì alla pace”. Le “croci” sono ancora troppe in Siria!


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