Ucraina, per cosa si combatte

0 0

L’improvvisa marcia indietro dell’ex Presidente Viktor Janukovič sulla strada per l’Europa alla fine del 2013 ha acceso la scintilla della rivoluzione di EuroMaidan. Le proteste nate dalla decisione del Presidente ucraino di non firmare l’Accordo di associazione con l’Unione europea hanno portato migliaia di persone ad occupare la piazza, giorno e notte. I moti hanno preso il nome dalla centrale Maidan Nazaležnosti (piazza Indipendenza) di Kiev e dalla voglia di Europa degli ucraini. Le manifestazioni sono andate avanti per settimane, nonostante i tentativi della polizia antisommossa di rimuovere le barricate, e il freddo pungente dell’inverno di Kiev. Fino al culmine di fine febbraio, quando 84 manifestanti sono morti sotto i colpi dei cecchini. Il bilancio definitivo di oltre tre mesi di EuroMaidan è stato di 103 morti tra i manifestanti e 13 tra i poliziotti. Il risultato, la fuga in Russia di Janukovič e la formazione di un nuovo Governo. È qui che ha avuto inizio la seconda fase della crisi ucraina del 2014. In risposta alla formazione del nuovo Governo e alla svolta filoeuropea di Kiev, la Russia – con un’operazione di maskirovka (guerra sotto copertura) – ha preso possesso delle strutture strategiche in Crimea, appoggiato l’organizzazione di un discutibile referendum sull’indipendenza e annesso la penisola nel Mar Nero alla Federazione, tutto in meno di una mese. Oltre alla presenza militare della flotta del Mar Nero, che sarebbe stata messa in discussione da un eventuale futuro ingresso dell’Ucraina nella Nato, le ragioni a favore dell’annessione riguardano la storia recente. La Crimea, a maggioranza di etnia e lingua russa, fu “ceduta” all’Ucraina solo nel 1954 per volere di Nikita Kruščëv, quando i confini interni dell’Urss erano poco più che segni sulla carta. L’annessione, formalizzata il 21 marzo, non è stata riconosciuta dalla comunità internazionale e la Crimea, di fatto sotto il controllo della Russia, resta formalmente un territorio conteso. L’ondata filorussa, e anti Maidan, si è espansa oltre la Crimea, investendo anche le regioni dell’Est comprese nel bacino del Donets, il cosiddetto Donbass. Anche lì uomini armati di provenienza non soltanto locale hanno preso il controllo delle istituzioni, indetto un referendum sul modello della Crimea e dichiarato l’indipendenza di due nuove entità, le repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk (le città capoluogo delle due regioni più grandi del Donbass), unite nello stato di Novorossija. Il Governo centrale ha risposto nel mese di aprile con un’operazione militare per la riconquista del territorio, tuttora in corso.

Per cosa si combatte
Le truppe governative hanno sferrato l’attacco ai miliziani separatisti per riprendere il controllo di una grossa fetta di territorio sfuggita a Kiev e per evitare il ripetersi di quanto successo in Crimea. Di contro, i separatisti affermano di combattere per la libertà del Donbass, a grossa componente etnica russa e russofona, contro quella che definiscono un’occupazione militare. Il fattore entico e linguistico gioca sicuramente un ruolo nella guerra, ma non spiega tutto. Le Regioni di Donetsk e Luhansk non sono infatti le sole Regioni dell’Ucraina ad avere una forte presenza di abitanti russofoni e di etnia russa. Del resto non è facile pesare il supporto popolare di cui godono le autoproclamate autorità separatiste. D’altro canto, se il supporto della Russia non è stato diretto e deciso come in Crimea (e lo si capisce anche dal trascinarsi della guerra da mesi) è difficile negare che ci sia stato e che Mosca abbia un interesse diretto, quantomeno a mantenere l’instabilità nella regione. Almeno fino all’estate, i vertici politico-militari delle repubbliche di Donetsk e Luhansk erano occupati da cittadini russi che solo in un secondo tempo hanno lasciato il posto a leader locali. Non è azzardato dire che l’Ucraina, e la Regione del Donbass, sono diventate terreno di un gioco geopolitico più vasto che va ben oltre i confini nazionali, e vede in discussione gli interessi non solo ucraini e russi, ma anche europei e statunitensi.

Il Quadro generale
La guerra in Donbass ha causato finora oltre 3mila vittime tra civili e militari, ma potrebbe essere una stima per difetto. Dal mese di settembre, una fragile tregua ha comportato un congelamento della situazione sul campo, ma non ha fermato gli scontri tra le forze combattenti né l’uso di artiglieri sulle zone abitate. Il Presidente Petro Porošenko, votato nelle elezioni presidenziali anticipate di maggio a larga maggioranza, ha fatto del piano di pace il suo cavallo di battaglia, anche contro le pressioni di una parte politica nazionalista che non vede di buon occhio scendere a patti con i separatisti. Per questo, la stampa ucraina ha parlato di una “colomba” Porošenko, in antagonismo al “falco” Arseny Jatsenjuk, primo Ministro e leader del primo partito del Paese. Il piano di pace è stato elaborato durante gli incontri informali del cosiddetto gruppo di contatto trilaterale a Minsk dove, con la mediazione del Presidente bielorusso Aljaksandr Lukašenka, i rappresentanti di Ucraina, Russia e dei territori separatisti, hanno concordato una tregua dei combattimenti. Il parlamento ucraino, nel frattempo, per favorire il dialogo di pace ha varato una legge transitoria che prevede un periodo di tre anni per la ricostruzione dell’apparato amministrativo e democratico nelle Regioni sotto il controllo dei separatisti, con l’indizione di elezioni locali sotto il monitoraggio di Kiev. Per tutta risposta le autorità delle repubbliche di Donetsk e Luhansk hanno indetto delle loro elezioni in totale autonomia tenutesi il 2 novembre, i cui risultati non hanno avuto il riconoscimento di alcun organismo internazionale. A un anno dall’inizio della rivoluzione di EuroMaidan e dopo un conflitto ancora lontano dal sedarsi, l’Ucraina è un Paese a pezzi, ma che sta lottando per rimettersi in piedi. Il governo e il presidente ad interim formatosi all’indomani della fuga di Janukovič hanno traghettato il Paese verso le elezioni presidenziali di maggio, da cui è uscito vincitore Porošenko, e quelle parlamentari di ottobre, che hanno rinnovato la Verkhovna Rada, l’assemblea nazionale. Il vecchio partito delle Regioni, che per anni aveva appoggiato Janukovič, è stato spazzato via e nuove forze politiche si sono affacciate in parlamento. Il temuto pericolo neonazista – ventilato da molte parti a seguito del ruolo determinante avuto nelle manifestazioni di piazza da forze estremiste di destra – si è sgonfiato con il flop dei partiti ultranazionalisti Svoboda e Praviy Sektor, che non hanno neanche superato la soglia di sbarramento del 5% per accedere al parlamento. Senza la Crimea e con le Regioni dell’Est – industrializzate e ricche di materie prime – sottratte al controllo del governo, quel che resta dell’Ucraina ha intrapreso con decisione la strada europea. Una profonda crisi economica, il crollo della valuta e i costi della guerra la rendono una strada tutta in salita. Intano il governo ha firmato il fatidico Accordo di associazione con l’Unione europea, da cui tutto aveva avuto inizio, il 27 giugno, voltando – forse per sempre – le spalle alla sorella Russia. Il dibattito interno sulla ricostruzione dello stato democratico si è nel frattempo spostato dalla classe politica nazionale all’intero apparato burocratico statale. Anni di governi cleptocratici hanno favorito una corruzione endemica a ogni livello. Combatterla è diventato lo slogan di pressoché tutti i partiti. Un grande passo, la cui efficacia e opportunità è tutta da verificare, è stato fatto il 16 settembre con l’adozione da parte della Rada della legge sulla ljustratsija, o lustrazione. Si tratta di uno strumento legislativo, già usato in altri Paesi ex comunisti, per ripulire le amministrazioni statali a tutti i livelli dai funzionari che si sono resi complici del passato regime. Non da ultimo va ricordato il ruolo dell’Ucraina come importante snodo energetico sulle rotte del gas russo verso l’Europa. Il rischio di una sospensione delle forniture russe, a causa del colossale debito accumulato dall’Ucraina, è stato fugato da un accordo raggiunto a fine ottobre grazie alle garanzie prestate dall’Unione europea.

Il personaggio: Petro Porošenko (Bolhrad, 26 settembre 1965)
Il “re del cioccolato”, è l’attuale Presidente dell’Ucraina, eletto al primo turno con il 54,7% dei voti. Deve il suo soprannome all’attività che per prima lo ha reso uno degli uomini più ricchi del Paese, l’industria dolciaria “Roshen”. Ma Porošenko non fa solo cioccolatini, possiede tra le altre cose l’emittente televisiva Kanal 5 e il giornale Korrespondent. Non è nemmeno nuovo alla politica, avendo ricoperto già l’incarico di ministro del Commercio con Janukovič e degli Esteri con Viktor Juščenko, il personaggio chiave della “Rivoluzione arancione” del 2005. Oltre a godere di un vasto consenso popolare e della stima internazionale, è anche in ottimi rapporti con gli uomini più ricchi e potenti dell’Ucraina. Come l’oligarca Viktor Pinčuk, genero dell’ex Presidente filorusso Leonid Kučma (quest’ultimo, rappresentante dell’Ucraina agli incontri del gruppo di contatto a Minsk per la pace in Donbass). Porošenko, con la sua elezione, è riuscito in qualcosa mai visto prima: unire, almeno graficamente nella mappa dei risultati elettorali, l’Ucraina solitamente spaccata in due lungo la linea del Dnipro. Per molti, un risultato dovuto alla mancanza di validi concorrenti. Focus 1

Separatismi e nazionalismi
Le Regioni separatiste nell’Est dell’Ucraina hanno dato vita a due entità autonome chiamate repubbliche popolari di Donetsk (Dnr) e Luhansk (Lnr), a loro volta unite nella Novorossija, letteralmente, Nuova Russia. Novorossija prende il suo nome dalla Regione storica dell’Impero russo, in parte coincidente con l’attuale territorio, ma con cui ha davvero poco a che fare. Alla sua fondazione ha preso parte il discusso ideologo russo Alexander Dugin, famoso per le sue idee di estrema destra, e consigliere di Putin. Novorossija si ispira alla tradizione russa e ai principi della religione ortodossa che vede come culto di riferimento, ma fa anche suoi alcuni principi del marxismo-leninismo come la collettivizzazione delle terre e la nazionalizzazione delle industrie. Focus 2

L’importanza dell’estrema destra
Svoboda e Praviy Sektor hanno svolto un ruolo determinante durante la rivoluzione. Il primo è un partito politico che, fino a prima delle ultime elezioni, godeva di un buon elettorato nelle Regioni Occidentali. È un partito di estrema destra, ultranazionalista il cui leader, Oleh Tyahnybok, si è distinto in passato per espressioni razziste, antisemite e persino negazioniste.Praviy Sektor è una formazione ancora più estremista, divenuta partito politico dopo EuroMaidan. I suoi membri usano un look militare e amano rifarsi spesso all’iconografia nazista. Loro in particolare sono stati accusati di aver agitato la piazza e portato gli scontri con la polizia a un livello di guerriglia urbana, con l’uso di molotov e armi.

Referendum contestato
Il referendum tenutosi in Crimea il 16 marzo è un argomento che divide chi è a favore e chi contrario all’annessione russa della penisola. Se per molti è stato una dimostrazione del volere popolare col suo 97% di voti favorevoli, per altri si è trattato di una “caricatura della democrazia”. Il referendum è stato indetto in tempi rapidissimi, senza fornire agli elettori alcuna possibilità di esprimere una volontà informata. La campagna referendaria non è praticamente esistita, se non sotto forma di propaganda per l’indipendenza. Il voto si è svolto senza il controllo di osservatori internazionali, in seggi pieni di gente armata, senza cabine elettorali e senza l’uso di liste elettorali. Anche i quesiti lasciavano poca scelta: mancava la possibilità di mantenere lo status attuale della Crimea come Regione autonoma dell’Ucraina.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21