“Nostro padre Pino Pinelli”. A 43 anni da Piazza Fontana tra rabbia e speranze la storia di una famiglia alla ricerca di una verità negata

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Per molti anni da quel maledetto 16 dicembre 1969 Licia Pinelli ogni volta che si avvicinava qualche ricorrenza legata al suo Pino, se ne andava da Milano per raggiungere la sua città natale Senigallia. Era il suo modo per non farsi travolgere dal dolore per quell’assurda morte di suo marito, Pino Pinelli ferroviere anarchico venuto giù durante un interrogatorio da una finestra del quarto piano della Questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 nei giorni immediatamente successivi alla strage di Piazza Fontana.

Forse anche per tener fede a questo legame tra Licia e la sua città, Claudia e Silvia Pinelli, hanno accettato di partecipare ad un dibattito organizzato nella cittadina marchigiana da Città Futura per raccontare la loro vicenda pubblica e privata  ed assistere alla proiezione del film di Marco Tullio Giordana Piazza Fontana Romanzo di una strage.

Sul palco assieme a loro, il Presidente dell’Associazione familiari delle vittime di Piazza Fontana Carlo Arnoldi e Piero Scaramuzzi, il giornalista autore con Licia Pinelli del libro intervista pubblicato da Feltrinelli dal titolo: Una storia quasi soltanto mia.

Quando comincia a parlare Claudia guarda dritto negli occhi il pubblico con quella dignità del dolore che è da sempre il segno della battaglia condotta dalla sua famiglia. Ha la stessa luce negli occhi di sua madre, una donna la cui storia, come ha scritto Lella Costa, suscita emozione e nostalgia “ non tanto per un mondo che di sicuro perfetto non era, ma per la speranza, che in tanti avevamo, di riuscire a cambiarlo”.

Claudia nel racconto non chiama i genitori papà o mamma ma Pino e Licia, come per evitare il rischio di eccessivi coinvolgimenti affettivi.

“Pino si sentiva fino in fondo un anarchico. Era una delle prime cose che diceva quando conosceva qualcuno. Aveva scelto di stare dalla parte degli ultimi. Quando c’era lui la nostra casa era un porto di mare, con gente che veniva ad ogni ora del giorno per scambiarsi idee o progettare iniziative politiche. Venivano anche cattolici del dissenso che con mio padre condividevano l’obiezione di coscienza ed una certa idea di pacifismo. Poi purtroppo ci fu il 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana e la nostra vita ne fu irrimediabilmente sconvolta. Mio padre venne fermato ed andò in Questura da dove non uscì più vivo”.

Poi è la volta di Silvia raccontare del loro calvario giudiziario: “Subito dopo il tragico volo di mio padre da quella finestra della Questura, in piena notte il Questore Guida ed il Commissario Luigi Calabresi convocano una conferenza stampa per raccontare ai giornalisti che Pino si era suicidato  gettandosi dalla finestra dopo che era caduto il suo alibi ed era stato scoperto colpevole. Naturalmente questa versione del Pinelli colpevole si rivelò ben presto infondata ed allora la sua morte venne dalle pronunce giudiziarie qualificata prima come morte accidentale e poi nel 1974 come “malore attivo”. La nostra domanda di verità e giustizia è rimasta completamente senza risposta e quando mia madre provò la strada civile chiedendo il risarcimento dei danni non solo perse la causa ma venne condannata anche al pagamento delle spese processuali. Non abbiamo avuto una verità giudiziaria ma continueremo a lavorare per far conoscere la verità storica”.

Sul ruolo avuto da Luigi Calabresi nella vicenda la posizione delle figlie di Pinelli non ammette repliche. “Spesso nel film di Tullio Giordana- sottolinea Claudia- viene ripetuto il fatto che dai dati emersi risulta che il commissario Calabresi non fosse presente nel momento in cui Pino precipitava dalla finestra. Questa circostanza può interessare soltanto la famiglia Calabresi. Per noi infatti Calabresi è comunque responsabile di quanto è accaduto perché ha protratto il fermo di mio padre oltre le 48 ore consentite, perché aveva la responsabilità della conduzione degli interrogatori e perché era in quel momento il funzionario più alto in grado. L’assassinio di Calabresi ha segnato la fine delle nostre speranze di giustizia, non solo per la ferocia e la disumanità del gesto ma anche perché insieme a lui scompariva anche l’unica possibilità di sapere cosa veramente è successo quella maledetta notte del 1969 nella Questura di Milano”.

Un lungo e rumoroso silenzio quello riservato dalle Istituzioni alla famiglia Pinelli, fino alla coraggiosa iniziativa del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che il 9 maggio2009 inoccasione della giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo invitò insieme alla vedova Calabresi ed ai rappresentanti dei familiari delle vittime di Piazza Fontana anche Licia Pinelli e le sue due figlie.

Il discorso pronunciato in quell’occasione da Napolitano fu fondamentale per restituire dignità alla figura di Pinelli sottraendolo all’oblio.” Rispetto ed omaggio dunque – disse Napolitano – per la figura di un innocente come Giuseppe Pinelli che fu vittima due volte, prima di pesantissimi ed infondati sospetti e poi di un’improvvisa ed assurda fine”.

Fu davvero un bel giorno quello al Quirinale, con Licia che abbraccia Gemma Capra, vedova Calabresi, e saluta il figlio Mario Calabresi (“mi ha dato l’impressione di una persona buona” dirà più tardi).

“L’atmosfera di quel giorno al Quirinale – racconta Licia Pinelli a Piero Scaramucci- mi dava la sensazione di come potrebbe essere uno Stato di diritto. Poi uscendo da là ho ritrovato un’altra Italia. Si respira un’altra aria fuori, diversa, molto peggiore. Un’Italia di nessun diritto”.


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