Berta Caceres, “dare la vita per i fiumi è dare la vita per l’umanità”

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Leggere, in un giorno qualsiasi dopo il 4 di Marzo, il testo di presentazione di Berta Cáceres sul sito del Goldman Prize (il premio internazionale di cui è stata insignita nel 2015), fa ghiacciare il sangue. Si arrivi all’ultimo paragrafo, e in meno di mezza riga s’incontrano le parole: “i suoi colleghi non sarebbero sorpresi se venisse assassinata”. A quasi un anno di distanza, è successo. E il governo honduregno promette indagini severe per punire il delitto. Ma c’è bisogno di una forte pressione internazionale perché davvero si faccia luce su un omicidio prevedibile e annunciato.

Berta Cáceres è una donna Lenca, popolo antichissimo le cui origini si perdono tra i Maya e gli Incas, che ha incarnato in ogni momento, anche in quello della sua morte, il ruolo che la cosmogonia Lenca attribuisce ai custodi della terra, ai guardiani dei fiumi, di cui gli esseri umani sono figli. “Dei fiumi noi Lenca siamo i guardiani ancestrali, e ci proteggono gli spiriti femminili che ci insegnano che dare la vita in molteplici modi per la difesa dei fiumi è dare la vita per il bene dell’umanità e di questo pianeta”.  E questo è successo.

Ma è successo centinaia di volte prima, con intrecci di potere, d’interessi e di deficit d’informazione da quelle periferie del mondo che, negli anni in cui si dichiarano prioritari l’impegno per l’ambiente, la lotta al cambiamento climatico e alla povertà, non fanno che rivelare il cinismo imperante, più o meno celato dietro a certe politiche, ai piani per lo sviluppo (e sì, anche quelli con la bandiera dello sviluppo sostenibile) e all’economia verde. È quello che denunciava con intelligenza e lungimiranza, con ostinazione e coraggio, Berta Cáceres. Spiegava che la difesa del territorio – della terra, del grano e dell’acqua – è la difesa dell’identità, cioè è la difesa del corpo e del pensiero, è la difesa dello spazio per l’umanità. Ed è per questo che non la si può ricordare soltanto come un’attivista ambientale. Berta denunciava le alte concentrazioni di arsenico, cianuro e mercurio nei suoli prodotte da anni di sfruttamento barbaro; denunciava l’avvelenamento dei fiumi, e così quello del corpo e dell’anima della popolazione; gli interessi che sradicano popoli, vite e culture ancestrali, passando con le ruspe non solo sopra ai boschi e alle terre indigene, ma sopra ai diritti umani e alle libertà civili di chi da anni, con minacce, militarizzazione degli spazi fisici e politici e assassini mirati, si cerca di far tacere. Il portato delle battaglie di questa donna dal viso sempre solare, dunque, riguarda l’ambiente nel senso più ampio; riguarda la vita, l’identità e i diritti, e non solo quelli di popoli lontani dal nostro continente. Denunciava la sopraffazione e i sistemi di connivenze mafiose. Denunciava i modelli di sviluppo figli del capitalismo e l’economia verde come astuzia partorita dallo stesso sistema liberistico, la finanziarizzazione dei beni comuni, dell’acqua, dell’aria e dei suoli, così come gli sgomberi forzati, la violenza istituzionale e istituzionalizzata per proteggere i profitti, e ha dato voce alle comunità più remote dell’Honduras, portando le loro istanze all’attenzione delle istituzioni continentali e internazionali anche quando dopo il golpe del 2009 molti mezzi di comunicazione vennero tacitati o semplicemente chiusi.

Berta era fondatrice e coordinatrice del COPINH, il Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras, costituito nel 1993 per unire le voci delle comunità indigene. Con le marce pacifiche del 1994 il COPINH aveva ottenuto la ratifica della convenzione 169 dell’ILO, da parte del governo honduregno, che garantisce alle comunità indigene la non discriminazione, la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, la salvaguardia delle persone, della cultura, della proprietà dei territori ancestrali, del lavoro, delle istituzioni e dell’ambiente delle comunità stesse, così come il diritto alla consultazione e alla partecipazione in ogni decisione che abbia ripercussioni sulla vita degli indigeni. Sempre nel ’94, ad alimentare le speranze che la convenzione non rimanesse inchiostro su carta, le mobilitazioni del COPINH hanno portato al riconoscimento dei titoli comunitari per preservare appunto il diritto dei popoli indigeni sui loro territori e tutelarli dalle espropriazioni e privatizzazioni.

Dai primi anni del 2000 però le politiche dell’Honduras hanno visto un adeguamento in direzione dei progetti di sviluppo sostenibile, di economia verde e di creazione di posti lavoro, promossi e finanziati dalla Banca Mondiale, dal PNUD e dalla Banca Interamericana di Sviluppo, tra gli altri. E probabilmente è a questo livello che si colloca la più difficile delle lotte delle comunità locali, del COPINH e di Berta. Con la legge sulla proprietà del 2004 si è iniziato a parcellizzare le terre indigene di cui i titoli comunitari garantivano la non frazionabilità, affinché imprese straniere e locali potessero appaltare i megaprogetti di ecosviluppo a base di energie pulite o di turismo rigorosamente verde, o aggiudicarsi territori per la coltivazione o lo sfruttamento minerario che avrebbero generato impiego, o ancora accedere alle concessioni su zone boschive nel quadro dei programmi di sviluppo pulito. Ed è qui che Berta ed altri attivisti hanno smascherato le perversioni che si annidano nelle promesse dello sviluppo verde.

Esempio emblematico sono i piani REDD, ovvero i progetti di riduzione di emissioni causate dalla deforestazione e dal deterioramento dei boschi che stanno invadendo l’America Latina, che prevedono la creazione dei crediti di CO2 acquistabili dalle imprese che inquinano. E questo può avvenire principalmente in due modi: o, in base a quanto previsto dal meccanismo REDD, alle comunità indigene viene affidata la manutenzione dei boschi con progetti e finanziamenti contro la deforestazione, oppure sono le stesse imprese transnazionali ad acquisire intere zone boschive tramite gli espropri attuati dal governo o dietro pagamento di somme (spesso ridicole) alle comunità locali, grazie allo smembramento dei titoli comunitari che consentono la parcellizzazione delle proprietà indigene. In entrambi i casi il risultato è che le imprese inquinanti, concentrate soprattutto nel Nord del paese, acquistano i crediti di CO2 dalle zone tutelate dai REDD invece di diminuire le loro emissioni. I problemi connessi ai piani REDD però hanno avuto un impatto notevole sulle popolazioni locali: non solo per i progetti REDD non sono state ascoltate le comunità indigene, e non solo sono stati avviati in violazione della convenzione 169 che prevede la consultazione e il consenso delle comunità nelle decisioni e misure che le riguardano; ma quand’anche questo meccanismo viene accettato da alcune comunità latinoamericane, le distorsioni dei fondi che finanziano i progetti REDD sono costume.  In questi casi alle comunità indigene va una infima parte del compenso per le quote di CO2, mentre gran parte del denaro finisce nelle casse delle imprese o delle ong a cui vengono affidate le costosissime consulenze per il computo dei crediti nelle aree boschive. Inoltre, le comunità che rientrano nelle strategie REDD diventano responsabili per qualsiasi dispersione di CO2 dalle zone tutelate e questo porta alla disintegrazione antropologica di culture millenarie che nel loro rapporto con i suoli, con i boschi, con i fiumi e con la biodiversità della loro Terra fondano la loro identità, le loro cosmogonie, e le attività che scandiscono le loro vite da generazioni. Così queste comunità devono rinunciare ai loro costumi (certamente non dannosi dal punto di vista delle emissioni), non hanno diritto a ritagliare piccole zone per la coltivazione o a usare il legno che può servire alla costruzione delle abitazioni; su di loro infatti vigilano attentamente le ong o gli enti preposti al controllo dei crediti CO2, affinché non vi sia la minima dispersione dell’anidride carbonica che le foreste indigene devono stoccare per permettere al sistema produttivo di continuare a inquinare senza limiti.

Dopo il colpo di stato del 2009, Berta Cáceres e il COPINH hanno denunciato senza sosta la crescente violenza delle istituzioni e i decreti a pioggia con cui il governo ha autorizzato in poco tempo più di 400 concessioni minerarie alle imprese transnazionali operanti nel settore, la svendita di più del 30% del territorio honduregno, avvenuta il più delle volte in modo illecito, procedendo agli espropri delle comunità indigene, o istituendo anche sotto l’etichetta di “zone protette” degli escamotage per lo sfruttamento di terre, corsi d’acqua, boschi e legname a beneficio delle grandi multinazionali. Tutto questo ledendo i diritti di proprietà collettiva degli indigeni e non solo: come è stato riconosciuto nel Novembre 2015 dal rapporto delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, le concessioni a terzi che avanzano pretese sulle terre e le risorse naturali che i titoli comunitari dovrebbero tutelare, sono illegali, frutto di corruzione, violenze, violazioni dei diritti umani e impunità. Lo stesso rapporto metteva in luce come a causa di ciò ci fossero anche le forti difficoltà di accesso alla giustizia per gli indigeni, una sola delle forme in cui si concretizza la discriminazione nei confronti di comunità che ancora si vedono negati i diritti fondamentali. E nello stesso rapporto ONU vengono denunciate le uccisioni di coloro che si sono opposti negli anni a queste misure; un quadro estremamente allarmante che però non sembra avere sufficiente visibilità.

E questo Berta Cáceres lo denunciava da tempo, senza rinunciare a fare i nomi e cognomi delle imprese – sempre le stesse – che dai progetti per lo sviluppo pulito ai piani su larga scala per l’impiego e l’energia, dai programmi per gli investimenti stranieri alle strategie di riduzione della povertà, sono aggiudicatarie fisse e destinatarie perenni degli ingenti fondi stanziati dai vari programmi di riferimento. E accanto a questi nomi, ci sono anche quelli di colo che negli anni sono stati uccisi con assassinii mirati o detenuti arbitrariamente, ricorrendo spesso alle leggi di intelligence e antiterrorismo: la stessa Berta nel 2013 era stata incarcerata con formulazione a suo carico di false accuse di possesso di armi, e le minacce che riceveva prima ha continuato a riceverle anche dopo la scarcerazione. Minacce di morte, di stupro, di linciaggio, di amputazione della lingua che sono venute da membri delle forze di sicurezza nazionale così come da organi governativi o da individui al soldo delle grandi società che si sono viste intralciate e che bersagliavano sia lei che i suoi familiari. Tant’è che nonostante la Commissione Interamericana per i Diritti Umani avesse disposto misure di protezione speciale per l’attivista, il governo honduregno non le ha mai applicate e Berta, senza quell’impossibile protezione, che le autorità non le hanno saputo dare, è andata incontro a un destino di cui era consapevole.

Tra le lotte più impegnative che Berta e il COPINH hanno condotto negli ultimi anni c’è quella contro il colosso cinese Sinohydro: l’impresa, incaricata della costruzione della diga di Agua Zarca sul fiume Gualcarque, che avrebbe privato un’intera comunità dell’accesso alle fonti idriche del suo territorio, nel 2013 ha fatto un passo indietro così come la Banca Mondiale che avrebbe finanziato i lavori, a causa delle uccisioni di cui sono stati vittime gli abitanti Lenca che si rifiutavano di abbandonare le loro case e gli attivisti che manifestando si sono opposti al progetto, alla privatizzazione del rio Gualcarque e agli sgomberi forzati, incontrando la risposta armata di polizia ed esercito e la precisione dei sicari che non sono stati mai puniti.

Un’altra forte azione di denuncia ha riguardato la costruzione del mega parco eolico nella provincia di San Marcos, affidata al gigante energetico Iberdrola, compagnia ispano-qatarina il cui azionista di maggioranza è il Fondo sovrano del Qatar, al gruppo honduregno Terra e a Gamesa per la dotazione e installazione delle turbine. L’opposizione era nei confronti del modello di sviluppo veicolato da progetti come quello di San Marcos o come quello che pochi mesi prima era stato inaugurato nella regione di Santa Ana: sempre un parco eolico, il più grande del Centroamerica, per la cui implementazione si è fatto tutt’altro che applicare e rispettare il diritto di consultazione delle comunità indigene; Berta e i suoi colleghi di numerosi raggruppamenti per i diritti umani hanno documentato e denunciato l’occupazione, gli sgomberi e l’abbattimento delle abitazioni, la militarizzazione delle aree interessate e, puntuali, le minacce di morte e di violenze, gli abusi sessuali sugli abitanti indigeni che non volevano cedere le loro case e le loro terre, la distruzione di numerosi siti archeologici e di riserve per l’approvvigionamento idrico locale. Ma a guadagnare dall’abbondante produzione elettrica risultante dall’opera, nonostante gli annunci del governo, sono soprattutto le grandi imprese perché molta dell’energia prodotta viene venduta generando grossi profitti, e solo in parte viene destinata al fabbisogno energico che il paese, nonostante le potenzialità, ancora non vede totalmente coperto. Una beffa ai diritti e ai titoli comunitari come ai progetti indigeni per la produzione di energia che vada realmente a beneficio del popolo honduregno.

Berta faceva nomi e cognomi individuando tutti i passaggi della catena che lega le imprese e i potentati aggregati dalle misure opache e privatistiche (con le leggi sulla produzione energetica, sugli investimenti esteri, sulle concessioni e sulle privatizzazioni dei fiumi) che hanno avuto impulso enorme dal colpo di stato del 2009: le società che nel 2011 si spartirono gli 800 milioni di dollari allocati dalla Banca Mondiale per la produzione di energia idrica, sono le stesse che hanno beneficiato dei finanziamenti per la produzione di energia termica, poi delle concessioni sui corsi d’acqua e della privatizzazione di 27 fiumi per la produzione idroelettrica e le stesse che, ancora una volta, ritornano nei mega-progetti eolici.

Le comunità indigene che per secoli, grazie alla manutenzioni dei boschi, hanno garantito che le acque dei fiumi arrivassero a tutta la popolazione, sono sempre più impoverite dalle espropriazioni che costringono i giovani a migrare verso gli Stati Uniti, alimentando quei flussi che gli stessi USA sperano di ridurre col finanziamento della recente Alleanza per la prosperità del Triangulo Norte, il triangolo della morte tra Honduras, El Salvador e Guatemala, in cui si registrano tassi di omicidi superiori a quelli delle zone di guerra a causa della criminalità, narcotraffico e povertà (il primato, secondo il rapporto ONU del 2011, spettava proprio all’Honduras con 92 omicidi per ogni 100 mila abitanti). Altro primato, l’Honduras è il paese più pericoloso al mondo per i difensori dell’ambiente e lo è per loro più che per i giornalisti: tra il 2010 e il 2014 sono stati assassinati 101 attivisti impegnati nel contrasto ai mega-progetti di agricoltura industriale, minerari o energetici, secondo il report di Global Witness. Numeri analogamente raccapriccianti, sono quelli che emergono dalla relazione di Frontline Defenders: in Centroamerica il 41% degli omicidi colpisce indigeni e attivisti che si battono per l’ambiente e per il diritto alla terra.

In una recente intervista sulle lotte che avevano fatto retrocedere la Sinohydro, Berta aveva dichiarato: “siamo in un momento difficile, ma andiamo avanti, perché ne abbiamo vissuti di più difficili ancora, e ce la faremo”. E ci proteggono gli spiriti femminili che ci insegnano che dare la vita in molteplici modi per la difesa dei fiumi è dare la vita per il bene dell’umanità e di questo pianeta


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