Le parole non sono mai neutrali. Possono raccontare, nascondere, sedurre, ferire. Possono diventare strumento di potere o di liberazione. È da questa consapevolezza che parte il lavoro di Annibale, studioso (salentino) dei linguaggi mafiosi, giornalista e docente, che ha scelto di stare nel punto in cui la ricerca incontra la responsabilità civile, dove l’analisi linguistica diventa una forma di presidio democratico.
Da anni, si occupa di ricerca sui linguaggi delle mafie per l’Università del Salento. Insegna anche Linguistica Italiana. In precedenza è stato cronista del Quotidiano di Puglia e docente di Lettere nella scuola pubblica. Oggi scrive per l’edizione pugliese del Corriere della Sera e per il sito dell’Enciclopedia Treccani.
Un percorso che tiene insieme mondi spesso separati ma anche uniti dall’urgenza del racconto e di una nuova narrazione sociale.
Il linguaggio delle mafie tra rito e tecnologia
Il linguaggio mafioso non è un residuo folkloristico del passato. È un sistema vivo, capace di adattarsi, di contaminarsi, di utilizzare tanto l’arcaico quanto l’ultramoderno. Annibale lo racconta con precisione, mostrando come le mafie sappiano tenere insieme simboli antichi e strumenti digitali avanzati, ritualità sacrali e piattaforme criptate.
«Alcune forme gergali resistono negli anni, come del resto la struttura comunicativa del “pizzino”, che poco tempo fa era utilizzata da Matteo Messina Denaro con una rete impensabile di postini- fiancheggiatori. Ma la cosa davvero interessante sulla lingua delle mafie oggi è vedere come si utilizzino indistintamente forme del passato, come i riti di affiliazione e di conferimento delle doti (spesso ritenuti arcaici dalle nuove leve criminali), e le ultimissime tecnologie per la comunicazione.
Le mafie tradizionali si servono del rituale di affiliazione dalla forte carica liturgica per permettere l’ingresso a un nuovo picciotto nella consorteria. Non è cambiato nulla rispetto al passato: ritroviamo il giuramento dalle sembianze massoniche, l’aspetto religioso della cerimonia e la puntura sul braccio dell’iniziato per fare cadere delle gocce su un santino (San Michele Arcangelo, la Santissima Annunziata o Santa Rosalia) da fare bruciare tra le mani per simboleggiare cosa spetta all’affiliato se tradisce l’onorata società.
Questo elemento di tradizione è ben presente nelle mafie che “funzionano” e hanno una struttura ancora consolidata (in particolare la mafia calabrese) e permette di affascinare soprattutto i giovani. Ma non bisogna pensare sia un rituale folcloristico, bensì ideologico, sacro, nelle intenzioni dei mafiosi. Un primo passo per non tradire mai i fratelli mafiosi: una volta entrati, non si può più uscire, se non attraverso una bara.
A questa forma simbolica, si affianca la capacità di utilizzare le nuove tecnologie. Per la comunicazione relativa al narcotraffico con broker e acquirenti si servono di social come Telegram, EncroChat e Sky-ECC o di social simili creati per gli scopi da ingegneri informatici al servizio della consorteria. Inoltre, i social network comuni diventano oggetto di propaganda per attirare nuovi sodali o per minacciare i pentiti. Per fare degli esempi, ricordo i casi della pagina Facebook “Onore e Dignità” gestita da uno ‘ndranghetista e il profilo Instagram “Pentiti brindisini”, che mette alla gogna i pentiti delle mafie, segnalando anche gli indirizzi dove poter trovare direttamente i soggetti».
Studiare questi linguaggi significa allora togliere loro l’aura di inevitabilità, restituirli alla loro natura costruita, ideologica, violenta. È un lavoro che riguarda tutti, perché quei codici parlano anche alla società, ne intercettano le fragilità, ne sfruttano i vuoti.
Difendere le parole, difendere la democrazia
In un tempo in cui il rumore sovrasta il senso, riflettere sui linguaggi è un atto controcorrente. Annibale individua una crisi profonda: la perdita di attenzione per le parole come sintomi del pensiero e come strumenti di futuro. Una crisi che non è solo culturale, ma politica.
«Perché viviamo in un mondo in cui ci viene imposto ogni giorno che il numero è più importante della parola e che la forma è più determinante della sostanza. Sono concetti davvero pericolosi che hanno portato all’inverno della democrazia, ormai imperante a ogni latitudine. Eppure, nelle parole risiedono tutti i sintomi del pensiero ed esse custodiscono l’intero patrimonio delle culture. Le parole ci fanno comprendere il passato, il presente, servendo da stampella per il futuro.
Poi, un’altra cosa che porta paradossalmente a una disaffezione nei confronti dei linguaggi è la quantità spaventosa di informazioni che bombarda la gente. Un macigno spesso costruito sull’effimero, vuoto, priva di qualità che possano favorire un cambiamento virtuoso nella persona. Perdiamo tanto tempo oggi ad ascoltare e a dire cose inutili.
Se non avremo la voglia di provare a fare la differenza attraverso le parole, ci accontenteremo di ingozzarci d’informazioni a portata di click, sfruttando l’intelligenza artificiale per non pensare più e consegnare definitivamente la nostra essenza di esseri umani ai numeri». Non è un caso che, alla fine, tutto si riduca a una scelta etica anche nel lessico quotidiano, nelle parole che decidiamo di abitare e in quelle che rifiutiamo.
«Te ne dico tre in un senso e nell’altro: mi piacciono molto “equilibrio”, “empatia” e “pazienza”, mentre odio “opportunismo”, “insensibilità” e “mafiosità”».
Difendere le parole, oggi, significa difendere la possibilità stessa di una società più giusta. E forse è proprio da qui che passa una delle battaglie più urgenti del nostro tempo.
