Da qualche tempo quotidiani e libri si soffermano, più o meno approfonditamente, sul tema della transizione globale in atto. Si riflette sulla inusitata fase di “riproduzione del sistema” che sta avvolgendo il pianeta, con l’unica costante, rispetto al passato, del mantenimento di un divario incolmabile tra variegate moltitudini ed élites, propense ad esercitare il potere, sia mediante metodi autoritari e di puro dominio, sia attraverso l’esercizio “democratico”, libero almeno in apparenza. Ora ci troviamo di fronte a un “picco”. La crescita economica è ormai scandita su dimensioni mondiali e si riducono drasticamente i suoi spazi materiali di espansione “orizzontale”. Ha già superato barriere ideologiche e regimi diversi. Ha frantumato i tradizionali confini nazionali per quanto riguarda la circolazione dell’informazione, l’uso delle tecnologie, i flussi finanziari, gli andamenti demografici. Seppur confusamente, a macchia di leopardo e non senza contraddizioni, alcuni strati sociali, specie nel Nord del pianeta, hanno potuto usufruire finora di un certo benessere materiale, pagato con radicali cambiamenti di vita, crollo di usanze e di ideali su cui erano cresciute intere generazioni. E debiti. Debiti individuali costruiti artificiosamente grazie a una irresistibile spinta verso il consumo più smodato. Debito pubblico, in misura abnorme rispetto ai ragionevoli margini di tolleranza sul disavanzo enunciati dai “classici”. La questione del debito sovrano non ha riguardato esclusivamente nazioni di secondo piano o ex colonie, ma pure gli stessi stati coloniali, fino al paese simbolo del “sistema”: gli Stati Uniti d’America.
Nel contempo, il ruolo della moneta e degli intermediari del credito (banche, assicurazioni, ecc.) si è progressivamente modificato (snaturato) in un perenne gioco di equilibrismo al rialzo che consiste nel creare sempre nuovo debito per pagare i debiti pregressi. All’infinito, sapendo benissimo che il grande deficit erariale e privato non è garantito da alcuna “economia reale”.
I singoli stati, specialmente quelli della cosiddetta area occidentale, con buona pace dei sedicenti sovranisti, hanno ormai definitivamente perduto la sovranità sulla loro moneta, che è ora gestita da un complesso e opaco mondo in condizione di drenare risparmi e risorse. Banche, intermediari finanziari, fondi, assicurazioni agiscono sui mercati monetari, azionari, obbligazionari, dei mutui, dei derivati con sempre meno controllo pubblico. Non assistiamo dunque solo alla privatizzazione esasperata di beni e servizi, all’insegna del “liberismo classico”, ma anche moneta, credito, cartolarizzazioni, subprime… risultano de facto relegati nelle mani di poche “piattaforme” (Big Tech) mastodontiche capaci di superare ogni barriera nazionale e di muovere capitali cospicui quanto il PIL di paesi come Francia, Italia, Germania.
Abbiamo in tal modo la opportunità di sperimentare direttamente la giustezza del “paradosso di Lauderdale”, secondo cui l’incremento della ricchezza privata «comporta una riduzione della prosperità pubblica». Tesi d’altronde corroborata a livello macroeconomico dalle analitiche riflessioni di Thomas Piketty da cui si evince «que des inégalités de fortunes aussi démesurées n’ont pas grand-chose à voir avec l’esprit d’entreprise» (Le capital au XXI siècle, Paris, Éditions du Seuil, 2013, p. 944) e, soprattutto, che la storia delle disuguaglianze ridimensiona il mito della proprietà a tutti i costi (Capitale e ideologia, edizione italiana Milano, La nave di Teseo, 2020).
La situazione vede perciò l’individuo odierno «privatisé», conformemente alla più sfrenata deregulation, e immerso nella baumaniana “società liquida”. Per ora il tutto regge grazie all’impiego disinvolto e massiccio di tecnologie inimmaginabili, mezzi di persuasione (occulta) degni dei migliori film distopici e, se del caso, anche in virtù del ricorso al rimedio più antico e tradizionale: la guerra. Guerre commerciali, a colpi di dazi, e conflitti militari veri e propri, per la conquista di terre (rare) o per la sottomissione di popoli. Si mette in campo tutto ciò che produce un effetto moltiplicatore della ricchezza (della povertà per i più), misurata non tanto come possibilità di fruizione di beni materiali, ma sotto forma di rapporti di debito e credito. I combattimenti e il terrorismo creano morte, stragi e soprattutto distruzione. Alimentano dunque lo sviluppo dell’industria delle armi di offesa e difesa e una continua domanda di ricostruzione riguardante edifici, infrastrutture e lo stesso arsenale militare. Questo implica una incessante ridefinizione e riallocazione delle risorse strategiche, oltre a una capacità di condizionamento assoluto sulla pubblica opinione.
Tutto il pianeta viene così influenzato da “nuove logiche”. Nelle aree dove non giunge il fragore delle armi esiti simili a quelli prodotti da un evento bellico si possono ottenere coltivando un clima di continua insoddisfazione e di paura; usando l’economia non per produrre occupazione, lavoro, appagamento dei bisogni, secondo gli enunciati del liberalismo classico, ma solo per estrarre avidamente valore. La moneta smarrisce la sua funzione intermediatrice e il denaro diventa mero strumento di produzione di altro denaro senza più alcun “riferimento materiale”: né lavoro, né merci.
È in simili scenari che le metropoli pullulano di migliaia di immobili sfitti mentre i costi di locazione risultano proibitivi e inaccessibili perfino per le classi medie. Ciononostante, il prezzo delle abitazioni continua a salire, grazie alla manipolazione dei tassi di interesse, delle modalità di concessione dei mutui o per il semplice fatto che a detenere le proprietà dei palazzi sono holding finanziarie che non usano gli edifici per il motivo per cui normalmente vengono costruiti, cioè di essere abitati, ma li considerano come semplice strumento di speculazione finanziaria, con un continuo cambio di proprietà da protrarre in una in(de)finita “catena di Sant’Antonio”: un Ponzi game che si arresterà unicamente di fronte allo scoppio di “bolle”, rovinose per chissà chi, chissà dove. Ma è solo un esempio, questo, tratto dalla cronaca recente, estraibile da una miriade di casistiche potenziali (pensiamo, a puro titolo indicativo, ai campi della privatizzazione della sanità, della scuola, dell’acqua, dei trasporti, delle piante rare, delle terre rare, perfino della legge) da cui però si desume tutta l’impotenza della politica tradizionale nel momento in cui si accinge a governare la situazione. Nel mentre, sentimenti di pietà, odio, compassione, pentimento, perdono, vendetta, variabili in base agli umori e agli interessi del momento, si accavallano tumultuosamente fino ad essere elevati a categorie giuridiche. Surrogano il diritto, ma rimangono arbitrariamente maneggiabili secondo imperscrutabili convenienze. Col risultato che la giustizia e la politica si corrompono facilmente e vengono ridotte a “sovrastrutture” ancelle o giullari del “sistema”, mentre le analisi teoriche, con colpevole ritardo, sono a mala pena in grado di enunciare i problemi.
Emblematico il caso dell’Europa «calpesta e derisa». Costretta alla grottesca nemesi di ritrovarsi in un limbo ove gli stati componenti hanno smarrito ogni autodeterminazione politica senza che la sovranità perduta si sia spostata su un livello federativo continentale o su un altro piano istituzionale. Umiliata, appare ora ridotta a una Canossa che conduce alla deriva di un vassallaggio di lungo “de-corso” per incompetenze, corruzioni interne; sotto il fuoco incrociato e convergente di falsi europeisti, sovranisti, supposti fautori dell’ordine globale, ma, soprattutto, per effetto della logica implacabile di una “dinamica” assurta a Moloch capace di risucchiare l’anima dei popoli.
Difficile verificare, come fanno ad esempio Diego Fusaro (si veda il suo Marx a Wall Street. Il capitalismo finanziario e le sue truffe, Milano, Piemme, 2025) o Saitō Kōhei (Il capitale nell’antropocene, una pubblicazione del 2020, uscita per Einaudi nel 2024) se si stia avverando la profezia marxiana. Se cioè ci stiamo immettendo nella messianica «fase suprema», sulla falsariga degli schemi contemplati nel secondo e terzo libro del Capitale, nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica e in altre opere del filosofo di Treviri preludenti, peraltro, un Armageddon di cui si stenta a intuire l’esito. Di certo non è lecito attendersi la vittoria della classe operaia, praticamente scomparsa; né il trionfo di un proletariato ormai costretto al silenzio e isolato nelle sue singole componenti massificate, mantenute in perenne contesa fra loro, ridotte a monadi lobotomizzate, come nei copioni dei più orridi romanzi di fantascienza.
Forse si può ancora discettare e discutere, come sembrano suggerire questi e altri autori, se ci troviamo in uno stadio critico ed eccezionale della evoluzione strutturale capitalistica o, meramente, di fronte all’unico vero volto del “sistema”, che resta comunque lo stesso, pur nelle sue svariate manifestazioni o metamorfosi. Vanno in tal senso certo considerate le valutazioni di Branko Milanovic in Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro (nell’edizione laterziana del 2022) che, tra l’altro, spiega bene l’amorale atomizzazione in questa fase di iper-mercificazione, con l’inevitabile caduta dei valori plurimillenari, a cui si faceva riferimento in precedenza, compresa la crisi della famiglia, ormai non più “utile” come nei decenni passati.
Abbiamo, in sintesi, continue riprove della “efficienza paretiana”, riparametrata però non più sul benessere di un individuo a scapito di un altro individuo, ma sul vantaggio smisurato di una ristrettissima élite a scapito delle genti tutte.
Fatto sta che, nel frattempo, i tradizionali simboli classici del potere, in molte parti del mondo, stanno gettando la maschera, deformati fino alla caricatura. Sconvolta ogni Lebenswelt, nel bellum omnium contra omnes, sopruso e violenza costituiscono una “normalità” da cui nessuno riesce a sottrarsi, anche perché il potere “vero” è diventato ineffabile, sfuggente, inafferrabile come Proteo.
Naturale che, di fronte a simili riscontri, si cominci a dubitare del senso di concetti come libertà, giustizia, uguaglianza, democrazia, repubblica. La lotta politica sembra svolgersi, anzi evolversi, fino a dematerializzarsi su un’altra dimensione sconosciuta, tutta da esplorare con prometeica pazienza, sapendo di andare probabilmente incontro all’eterno, rinnovato, supplizio.
L’esperienza, va detto agli smaniosi che a ogni piè sospinto pretenderebbero una rapida risposta all’angoscioso «che fare?», insegna che le ricette immediate si rivelano spesso mere illusioni. Terminato il percorso della lotta di classe per singola nazione resterebbe il livello planetario, il faro del multilateralismo. Ma su questo aspetto l’analisi di Marx andrebbe quantomeno corretta e integrata alla luce delle ultime scoperte scientifiche, della sbilanciata disponibilità di mezzi delle parti in conflitto, degli assetti sociali, demografici attuali e di fronte all’irrompere del machine learning. Tutti aspetti capaci, anche singolarmente, di sconvolgere ogni paradigma e ovviamente pure il «social choice and individual behavior» declinato da Amartya Sen nel suo Development as Freedom (New York, Anchor Books, 2000, p. 249). Rimane il fatto che «au dynamisme du modernisme et à la sécularisation de la societé» (M. Hardt, A. Negri, Empire, Paris, Exils, 2000, p. 191) pare essersi finora opposto solo un fondamentalismo rétro inneggiante a una società premoderna.
In fondo, il No logo, spiegatoci da Naomi Klein alla fine del secolo scorso (l’edizione italiana di Baldini&Castoldi è del 2000) per qualcuno aveva solamente confermato la profezia di Adam Smith, secondo cui il possesso di capitali trasforma ognuno in «cittadino del mondo». Ma questa constatazione ottimistica, intrisa di un allettante ecumenismo, non solo non ha preservato dai rigurgiti nazionalisti, ma ha anzi innescato reazioni “identitarie” includenti fobie, forme di neo-razzismo e genocidi mentre le relazioni umane si trasformavano in meri confronti fra competitori o in scontri fra potenziali nemici. È scomparso ogni segno di (cristiana) comunione, non si è più riusciti a praticare l’associazionismo, di mazziniana memoria, né ad applicare le formule economico sociali keynesiane, e neppure a tener conto delle premonizioni di un George Soros (v. The Crisis of Global Capitalism, London, Little Brown and Company, 1998). Il socialismo è apparso relegato ad antitesi; ma con la tesi che sembrava uscire rafforzata a ogni passaggio di sintesi.
L’irrompere del “nuovo corso”, seppure intravisto in tempi lontani, si pensi al marcusiano Uomo a una dimensione, non è stato di fatto mai fronteggiato negli ultimi cinquant’anni; e nemmeno assimilato dall’umanità nel suo complesso. Solo subìto: sul piano dell’impatto ambientale; sul piano etico, sociale, delle relazioni, della dialettica fra pubblico e privato. Allo scopo ha contribuito un iperisolazionismo capace di elevare l’egoismo a sistema (produttivo), mascherando una irreggimentazione senza precedenti, realizzata, peraltro, secondo uno schema orwelliano di falsa libertà che ha potuto dipanarsi sia nelle società a tradizione democratica, sia presso collettività ferme a schemi feudali, sia in quelle ex comuniste, come la Russia, o comuniste, come la Cina.
La novità forse più interessante consiste nel fatto che il male interiore che corrode il capitalismo è l’evidenza della assoluta mancanza di corrispondenze con le “esigenze naturali” dell’uomo su cui aveva basato la sua fortuna. Mentre le multinazionali sono ormai costrette a divorare lo spazio vitale del loro stesso habitat, ogni etica (non solo protestante) sembra perduta; e con essa si perde ineluttabilmente anche il weberiano «spirito del capitalismo». Allo stadio in cui ci troviamo, la dinamica del capitale non sembra dunque più in grado di interfacciarsi con la democrazia, col repubblicanesimo, col socialismo e nemmeno col liberalismo. Esige altresì forme di controllo e limitazioni sempre più invasive.
Il nuovo cominciamento di emancipazione non può allora che ripartire da una rincorsa molto lunga, perché la ferita da cauterizzare è talmente profonda che si rischia il decesso del paziente, ovvero dell’uomo come lo conosciamo. Le strade da percorrere non sono state mai battute e in gran parte restano addirittura da individuare. Dovremo chiederci se la rinnovata «presa di coscienza» ci condurrà ad andare oltre gli schemi del materialismo storico e dialettico che hanno finora hegelianamente delimitato il “campo di battaglia”. Potremmo chiedere soccorso alle tesi di Rosa Luxemburg sull’imperialismo; spingerci fino alla lettura, con altre lenti, degli a priori kantiani; ma quello che è certo è che la filosofia, l’economia, la scienza e perfino la storia e la sociologia appaiono tutte da reinterpretare ab initio di fronte all’irrompere degli algoritmi, delle implicazioni più eclatanti della fisica quantistica, della intelligenza artificiale, con il suo utilizzo pratico costellato di infinite potenzialità manipolatorie in grado di produrre effetti devastanti sulle stesse sfere del dominio.
Non si tratta di invocare nessuna rediviva, chimerica, fede religiosa. L’imperativo, hic et nunc, riguarda la possibilità di riprendere l’umano cammino. Lo studio, il dialogo fra le persone, la discussione, la partecipazione, le manifestazioni del dissenso e perfino il ritorno al voto come espressione organica possono serbare ancora un significato nella misura in cui sapremo liberarci delle scorie in cui ci troviamo invischiati. Se si deve attraversare la lunga notte del «medioevo automatizzato» la futura lotta rivoluzionaria (?) di emancipazione verso il progresso potrebbe iniziare in sordina: da un insieme di «atti di rottura» individuali, coscienti e responsabili, idonei ad assumere valenza collettiva. Ma intanto il rischio che la fase buia del capitalismo ci conduca alla rovina è concreto.
*Il testo presente, con lievi modifiche, esce contestualmente sulla rivista mensile “Il Senso della Repubblica” – agosto 2025
