“M. Il figlio del Secolo”, la bella fiction prodotta da Sky e diretta da Joe Wright, con la sceneggiatura di Stefano Bises e Davide Serino e l’interpretazione di un Luca Marinelli in stato di grazia, per non parlare del resto del cast, ha soprattutto un merito: restituirci l’essenza ridicola, dilettantesca e caricaturale del fascismo. Anch’io, dunque, al pari del professor Montanari mi schiero fra gli apologeti. Sbaglia, infatti, chi pensa che comico e tragico non possano coesistere, e il fascismo ne è la dimostrazione lampante. Nacque come movimento di popolo e si trasformò ben presto in trionfo dell’élite; nacque dal grembo di un ex socialista, ripudiato dai socialisti per via della sua indole bellicista (quanta modernità nell’analisi storica…) e divenne il principale bastonatore dei socialisti stessi; nacque con idee che anche Margherita Sarfatti, come si vede nella serie, definiva più a sinistra di quelle di Turati e compagni e le rinnega una dietro l’altra, in nome della passione per il potere, anzi dell’orgia del potere che ne avrebbe caratterizzato dinamiche e percorso; insomma, è la quintessenza della non ideologia che si trasforma in ideologia, dell’ideologia del vuoto che viene riempita da un oceano di violenza, della sopraffazione elevata a credo politico, dell’assenza che si fa presenza grazie all’adrenalina dell’odio, della furia che soppianta il ragionamento, del trasformismo che occupa le istituzioni e le svuota dall’interno, instaurando la dittatura ben prima del fatidico discorso del 3 gennaio del ’25.
L’altro merito straordinario di questa fiction, e del romanzo di Scurati da cui è tratta, è quello di parlare un linguaggio moderno. Certo, il vero Mussolini non avrebbe mai esclamato: “Make Italy Great Again”, come un novello Trump venuto da Predappio. Ma il punto è proprio questo: il fascismo, visto con gli occhi di Mussolini, si rivela in tutta la sua drammatica attualità l’“autobiografia della Nazione”, per citare il povero Gobetti, una delle sue più illustri vittime, altro che “parentesi”, come sosteneva ingenuamente Croce! È “il fascismo eterno” di cui parla Eco in un saggio, è il piduismo, è l’esautorazione del Parlamento attraverso il progressivo esaurirsi delle sue prerogative; è, dunque, una storia di ieri, di oggi e forse di sempre, in un Paese che ha tuttora un rapporto immaturo con il potere, mai in grado di controllarlo e conviverci e spesso intento prima all’adulazione acritica e poi all’abbattimento feroce, dalla Marcia su Roma a Piazzale Loreto, dall’altare alla polvere, cercando ogni volta un altro giro di giostra e assistendo alla pietosa scena dei laudatores del tiranno di ieri che si propongono come cantori dell’anti-tiranno di oggi e poi di quello di domani.
“M.” mette a nudo i nostri difetti, i nostri limiti, la nostra incompiutezza, la nostra immaturità democratica, i nostri eterni vizi e i nostri limiti, compresa la tendenza ad affidarci a ciarlatani, adulatori, imbonitori da circo e personaggi che, a guardarli da lontano, vien da chiedersi come sia stato possibile che abbiano conquistato la fiducia di un intero popolo. Eppure è successo, non certo una volta sola, ed è successo perché il fascismo ha incarnato alla perfezione le aspirazioni dell’italiano medio: le mille lire al mese, il modesto impiego senza pretese, il qualcuno che pensi al posto nostro, la mancanza di amore per la comunità, l’individualismo, eccezion fatta per la breve parentesi resistenziale, quando tutto era ormai perduto e fummo costretti a diventare adulti. Anche per questo, a ottant’anni dal giorno della Liberazione, dobbiamo dire con convinzione grazie a quei ragazzi e a quelle ragazze che sacrificarono la gioventù e talvolta la vita stessa per liberarci dal nazi-fascismo ma, prim’ancora, per destarci dal torpore delle nostre convinzioni piccolo-borghesi, illusioni tragiche di cui il “figlio del Secolo” ha costituito l’essenza.
Mussolini, un uomo rude, sgraziato, violentissimo, capace di far morire in manicomio una donna che per lui aveva sacrificato tutto (Ida Dalser) e persino suo figlio (Benito Albino), divenuto troppo ingombrante, maschilista oltre ogni limite, spregiudicato come nessun altro, contornato da canaglie disposte a uccidere pur di farsi strada, come predoni nella giungla, una “muta di cani”, per citare l’ottimo Scurati, Mussolini, capace di puntare sulla rabbia e sulla ferocia quando i reduci della Grande guerra si accorsero di essere stati presi in giri da una Patria che li aveva mandati a morire senza concedere loro nemmeno un ringraziamento, Mussolini, in tal senso, è stato il perfetto esempio di come la democrazia possa suicidarsi e qualcuno, più abile degli altri, possa approfittarsene. Del resto, la genialità della serie sta anche in alcune scelte, a cominciare dagli omicidi politici scanditi dal ritmo dei versi futuristi di Marinetti, che in effetti esprimono tanto la nuova civiltà industriale, poi stretta alleata del fascismo in nome dell’anti-comunismo e della paura del “pericolo rosso”, quanto i colpi di pistola e le bastonate inflitte a chiunque abbia tentato di opporsi. E Matteotti, che praticamente isolato anche dai suoi compagni di partito, compie l’elogio del Parlamento, mentre intorno a lui prevale la resa generale al nuovo despota e a una contemporaneità che avrebbe ben presto rivelato la sua arretratezza, Matteotti, dicevamo, è l’emblema del coraggio misto allo spirito di sacrificio: un morto che cammina, un martire annunciato, un personaggio eccezionale della cui grandezza non ci siamo ancora accorti, anche perché rendercene conto ci costringerebbe a cambiare noi stessi, le nostre convinzioni e il nostro approccio alla politica.
Vedendo quest’opera, mai come ora necessaria, mi è tornata in mente la “Nascita di una dittatura” di Sergio Zavoli, inarrivabile capolavoro della RAI che fu, giornalismo in purezza e analisi storica che ha forgiato una generazione, forse l’ultima ad aver avuto dei maestri. E mi sono tornati in mente i racconti di Enzo Biagi sul fascistone bolognese che non aveva mai “indietrato” e sui pagliacci che saltavano nel cerchio di fuoco, guidati da uno che pare si scrivesse sul polsino di “salutare nel Duce il fondatore dell’Impero”. A questa gente qui ci siamo arresi per un ventennio, finché la ridicolaggine non è divenuta tragedia, assumendo le sembianze di una generazione scannata sul fronte greco-albanese, assiderata in Russia, presa prigioniera in Africa, torturata a via Tasso, impiccata agli alberi lungo le strade, mentre “le cetre appese oscillavano lievi al triste vento” e, per fortuna, capace di provare il gusto della ribellione e dell’orgoglio, quando tutto, come detto, era ormai perduto e si poteva finalmente ricostruire sulle macerie.
“M.” è dunque incredibile perché, raccontando una vicenda di un secolo fa, parla all’oggi, ai tanti aspiranti despoti contemporanei e alle nuove oligarchie, non poi così dissimili da quelle di allora. E se all’epoca a fare la parte del leone furono industriali e latifondisti, oggi è l’industria dell’immateriale a rubare la scena, dettando i tempi alla politica e pretendendo che si adegui. Tutto già visto, compresi i nani, le ballerine, i corifei, i turiferari, i servi sciocchi e quelli meno sciocchi e, quel che è peggio, i minimizzatori, ossia coloro che non hanno neanche la dignità di ammettere di essere complici. Speriamo che non si debba sprofondare anche stavolta nell’abisso per liberarci di loro.
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