Ricordiamo i giornalisti ebrei (e i tipografi) perseguitati dal fascismo. 22 febbraio incontro alla Camera

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Un’iniziativa non solo per ricordare, ma per far vivere. Per far rivivere la storia e la memoria dei 35 colleghi ebrei deportati e radiati dall’Ordine – lo dico con un senso profondo di vergogna, che si protrae nel tempo fino a oggi – all’epoca delle leggi razziali. Non possiamo tornare indietro, ma dobbiamo, abbiamo l’obbligo di guardare avanti, ai rischi che insorgono, che risorgono dal passato e che devono aiutarci a non dimenticare.

Nella religione, e nella tradizione ebraica, che fa parte dell’Occidente e che noi tutti abbiamo acquisito, c’è un modo intenso, essenziale, per far rivivere: ed è quello di fare il nome. Il nome infatti non designa l’identità, ma l’eternità di una persona: come ben sa chi visita la Sala dei Nomi, presso il Memoriale Yad Vashem, sul Monte della Memoria, a Gerusalemme.

Per un giornalista, inoltre, c’è qualcosa in più: il nome è la firma. Il sigillo del nostro lavoro e il segno del legame con esso. Per questo, nell’atrio della nostra sede, dove ogni collega transita e si sofferma almeno una volta all’anno, in virtù della vecchia, consolidata abitudine di non rinnovare online l’iscrizione, ma di venirlo a fare fisicamente, per sentire l’atmosfera di casa e ritrovarsi con i colleghi, apporremo una lapide con i nomi, fatemi dire le firme, dei nostri colleghi ai quali sono state strappate via pagine della loro vita, nel tentativo di lasciarli senza firma.

Una firma che oggi noi restituiamo, per sempre, insieme alla tessera professionale, che simbolicamente è già stata riconsegnata da questo Ordine due anni fa. In questo modo l’atrio della nostra sede diventerà anch’esso una Sala dei Nomi, riecheggiandone, nel suo piccolo, la suggestione. Nella lapide scriveremo anche i nomi dei tre tipografi uccisi. Compagni di viaggio insostituibili per chi ha conosciuto la nostra professione secondo regole e tradizioni antiche, con i tipografi che – lasciatemelo dire con nostalgia – ci ricordavano impietosi e pressanti gli spazi e i tempi spesso non aggirabili del nostro lavoro.

Ho voluto portare avanti questa iniziativa – e ringrazio tutti coloro che l’hanno resa possibile – soprattutto per i giovani, che accedono oggi tra mille difficoltà alla professione, perchè sentano la presenza dei colleghi viva e percepiscano l’uguaglianza, l’impegno contro ogni discriminazione, come un tratto integrante della loro identità e dignità, in una parola della firma che apporranno su ciascun loro pezzo e sulla tessera della loro appartenenza all’Ordine.

Ci piacerebbe – e ci attiveremo per farlo – che fosse Liliana Segre, che forse ha conosciuto, e sicuramente ha condiviso luoghi e momenti tragici con i nostri colleghi deportati, a inaugurare, e onorare con una sua visita in piazza della Torretta, la lapide che ci aiuterà a coltivare la memoria, a restituire l’identità rubata, per tenere lontani gli inquietanti segnali dai quali riaffiora  l’antisemitismo.


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