Zio Federico: parla Renzo Rossellini

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Conosciuto da tutti come Renzino per distinguerlo dall’omonimo zio compositore Renzo Rossellini, l’enfant terrible dell’illustre famiglia romana, classe 1941, ha deciso di fare disclosure e di raccontare per filo e per segno la sua stagione cinematografica più esaltante, quando di punto in bianco fu chiamato da Toscan du Plantier, leggendario tycoon francese, a dirigere la Gaumont Italia. Un incarico che gli permise di produrre e distribuire più di cento film e di dare vita sotto lo stesso marchio alla scuola cinematografica più á la page di quegli anni.

Oramai il papà Roberto, autore sacro di Roma Città Aperta e altri capolavori del Neorealismo, era uscito definitivamente di scena; lontani i tempi in cui si era alzato in piedi alla fine della proiezione di La Dolce Vita e si era rivolto tuonando al pubblico in sala: “Fellini è malato, bisogna fermarlo”.

Federico non soltanto aveva preso fin dagli esordi le distanze dalla scuola rosselliniana, ma simile a un turbine inarrestabile, dirigendo film epocali come appunto La Dolce vita e 8 ½, aveva creato una faglia incolmabile con tutto il ‘cinema di papà’. A livello planetario.

Il contrasto apparentemente insanabile tra i due super cineasti si era ormai consumato e riassorbito. E per Renzino, Fellini restava Zio Federico, uno zio acquisito, come allora erano affettuosamente considerati gli amici di famiglia che bazzicavano per casa; e non gli era sembrato vero, con i nuovi galloni sul petto, di proporsi nel 1978 come distributore di Prova d’Orchestra. Annoterà anzi senza riuscire a nascondere un accesso di irrefrenabile entusiasmo:

“Sono orgoglioso di essere stato un mezzo per liberare quello spirito “ribelle” che covava in Fellini”.

Con un salto di fantasia, al prode Renzino era sembrato di scorgere nel grande autore i segni di quel carattere indomabile che aveva condotto lui a entrare nei i quadri dell’estrema sinistra guerrigliera, a partecipare ai movimenti di liberazione del terzo mondo, e a conoscere di persona perfino Che Guevara e Fidel Castro. Una militanza politica che era infine approdata alla fondazione di “Radio Città Futura”, a Roma, insieme all’editore Savelli, e a diventare “segretario generale della Federazione delle emittenti democratiche”.

Una stagione esaltante ma ormai conclusa, come del resto anche l’apprendistato cinematografico, iniziato ancora ragazzo sul set di Il generale Della Rovere, e continuato affiancando il padre nelle produzioni degli anni Sessanta, non di rado sostituendolo in segreto dietro la macchina da presa.

Questo e molto altro è raccontato in un diario di bordo, fino a oggi sconosciuto, da divorare dalla prima all’ultima riga, perché raccoglie le memorie del figlio di Roberto Rossellini e Marcella De Marchis, il più eterodosso produttore di Fellini: personaggio inquieto, fascinoso e assai discusso per i suoi trascorsi battaglieri, di cui ancora qualcuno conserverà un significativo ricordo.

ZIO FEDERICO – Fellini nelle memorie di Renzo Rossellini (Antonio Dellisanti Editore € 22,00) entra in scena con la fiammante falcata di una soubrette in piume e lustrini; ed è la più  prorompente pubblicazione sulla piazza per celebrare il compimento dei 101 anni di Federico Fellini, traguardo che ufficialmente conclude il Centenario, ma solo per il suo aspetto burocratico, il più lontano da lui e da noi; tanti sono i testi di gran pregio usciti nel 2020, di cui converrà parlare per protrarre la festa.

L’autore di questa pubblicazione inaspettata è Marco Sani, un medico letterato, autentico costruttore di memorie, demiurgo di quella mitica Fregene felliniana, “Perla del Tirreno”, che fu enclave del cinema degli anni dorati, tenuta da lui in vita stagione dopo stagione con dedizione da adepto.

Del resto era stato lo stesso Federico ad affermare:

«Fregene è per me come la genesi. È a Fregene che sono nato come regista con Lo sceicco bianco, e poi con La dolce Vita fino a Giulietta degli Spiriti e alcune scene de La città delle donne».

 

Tra il  1979 e il 1980  con la società Opera Film, Renzo Rossellini entra direttamente nella produzione di La città delle donne, in associazione con la Gaumont Francia. E qui scivoliamo all’interno di un giornale di navigazione che vale più di cento saggi messi insieme. Una vera epopea: posso confermare riga per riga perché all’epoca facevo parte della ciurma.

Si trattò di un film durissimo, molto complesso e tribolato, un capolavoro corrusco, al solito troppo in anticipo sui tempi per essere ben accolto dal pubblico, ma che oggi ci appare denso di presagi, un affresco inquietante di quegli anni confusi.

Sul piano della pura cronaca accadde di tutto: all’inizio della lavorazione morì Ettore Bevilacqua, personaggio pittoresco molto amato da Fellini, il suo personal trainer da fumetto, che oltretutto era stato l’inventore dell’appellativo “Il Faro”, divenuto eponimo del regista riminese. Il 10 aprile venne a mancare all’improvviso Nino Rota, “l’amico magico”, segreta anima musicale di tutti i film di Federico, un lutto incolmabile. A poche settimane dalla conclusione del film morì in un agghiacciante e cruento incidente d’arma da fuoco, il co-protagonista Ettore Manni, e fu necessario scritturare una controfigura per concludere almeno le riprese di raccordo.

Quasi presentisse fin dall’inizio l’addensarsi di tante contrarietà, Federico durante la gestazione del film riferiva di sogni allarmanti; in uno, notissimo, si trovava da solo a bordo di una fragile barchetta, in mare aperto, circondato da squali che incrociavano con intenzioni bellicose: “Chi mi salverà? Come mi salverò?” Si interrogava l’artista nel commento scritto di proprio pugno sul Libro dei Sogni.

Buon ultimo dopo produttori del calibro di Dino De Laurentiis, Alberto Grimaldi e Franco Cristaldi, Renzo Rossellini non nasconde nelle sue note una crescente apprensione:

“La Città delle Donne è un progetto che parte da lontano ed è costellato da una serie di eventi negativi (…). Il budget iniziale di tre miliardi di lire era lievitato fino ad arrivare a cinque miliardi (a chiusura supererà i dieci miliardi). Lo spunto iniziale, da un’idea di Bernardino Zapponi, avrebbe dovuto costituire l’episodio felliniano di un film con Ingmar Bergman. A un cero punto di presentò mio cugino Franco (n.d.r.: produttore con sede operativa negli USA) che, amico del multimiliardario Bob Guccione, all’epoca editore della rivista “Penthouse”, propose un protocollo produttivo d’intesa che vedeva interessati in caratura almeno una ventina di investitori. (…) In più le svariate interruzioni avevano ingenerato un ulteriore blocco psicologico in Fellini che viveva una grave crisi di insonnia alternata a ricorrenti incubi minacciosi…”

Ma nella vita diurna Federico educeva serafico la stampa:

«La donna è ancora e sempre quel pianeta affascinante e sconosciuto su cui continuiamo a proiettare confusioni, incertezze, ignoranze… Personalmente continua a sentirmi confortato da un tipo di figura femminile con caratteristiche esplicite, riconoscibili, una femminilità che, da un punto di vista psicologico, corrisponde a qualcosa di protettivo, gioioso, rassicurante, accogliente».

 

La proposizione non era giunta gradita alle signore del femminismo radicale che occuparono il set; inferocite altresì alla notizia che Fellini teneva sulla scrivania dell’ufficio di Cinecittà il libro dello scrittore e neurologo tedesco di Paul Moebius (1803-1907) intitolato “L’inferiorità mentale delle donne”.

Nulla di più remoto dalle convinzioni del regista, il quale continuava a ripetere come un mantra le parole di C. G. Jung:

La donna sta laddove l’uomo ha la sua ombra, sì che spesso egli è portato a confondere la donna con la propria ombra”.

Sociologia e poesia, si sa bene, parlano linguaggi assai poco affini; e il film inviava ormai odore di bruciato, tanto da venir marcato a uomo (si fa per dire) dalle ronde infuriate delle miliziane femministe.

Intanto rapporti decennali e infrangibili si spezzavano per sempre come vecchie croste: Liliana Betti, assistente storica e storiografa del Maestro, voltò per sempre le spalle e sbatté la porta a causa del contrasto, forse non futile ma certo pretestuoso, insorto per una seducente fanciulla francese, allieva di Lacan, giunta via Moravia nell’entourage come una dirompente new entry.

Renzino stesso in quanto ex dirigente di Avanguardia Operaia, veniva ripetutamente convocato dai giudici per rispondere a svariati capi di imputazione che gli venivano ascritti. Era indagato persino in riferimento alla strage di via Fani, in conseguenza di alcune affermazioni divulgate da Radio Città Futura. Sul set, ad ogni buon conto, avevano fatto irruzione due pantere di una squadra antiterrorismo con agenti della Digos a mitra spianato.

Per colmo di sfortuna Fellini cadde inciampando su un cavo elettrico e si ruppe un braccio. Ma nonostante l’imposizione del gesso per un mese, non abbandonò il set, continuando a dirigere scrupolosamente ogni giorno le scene previste dal piano di lavorazione.

Possibile che non ne andasse una dritta? Ebbene una sì, eccola, riferita dallo stesso protagonista:

“Il sei ottobre mi sposai con Elisabetta – Lisa – Caracciolo, e una processione di auto della produzione mi accompagnò fino a Todi. Testimone di nozze, chiaramente, fu Zio Federico. Che alla fine del pranzo fece un brindisi auspicando un’altra collaborazione futura; e la mia giovane moglie, con molto charme, come sua consuetudine, ribatté: «Ma allora vuoi proprio uccidermelo!»”

 

Le riprese erano iniziate il 2 maggio, ma l’ordito del loro svolgimento lo lasciamo a totale beneficio del lettore, trattandosi davvero un secondo film parallelo.

L’impostazione della scenografia era macchinosa: Fellini pretendeva effetti speciali complicati che da soli meriterebbero una narrazione a parte; a cominciare dall’iniziale (e finale) sequenza del treno in cui Snàporaz (Marcello Mastroianni) incontra la viaggiatrice misteriosa (Bernice Stegers, a cui presterà la voce in doppiaggio Adriana Asti).

Le scene erano girate dentro un vagone ferroviario posizionato in teatro di posa sopra gigantesche molle ammortizzanti, intorno al quale scorreva il paesaggio dipinto su un gigantesco fondale che muscolosi macchinisti non si stancavano di azionare ad ogni ciak creando un perfetto ed ingannevole movimento indotto.

Il libro non finisce qui. Appena tre anni dopo seguirà una terza avventura produttiva, quando Rossellini mette mano, insieme alla RAI di Sergio Zavoli e a Franco Cristaldi, a E la nave va non meno affollata di aneddoti e spunti avvincenti.

Lo spigliato racconto ci aiuta a comprendere a fior di pelle cosa abbia rappresentato Federico Fellini nel panorama della nostra industria cinematografica, del nostro immaginario, della nostra cultura e della nostra coscienza nazionale.

Affermare dunque che oggi l’artista ci manca non è enfasi retorica: una personalità di tale statura si pone come riferimento imprescindibile in qualsiasi comunità civile proclive ad affidarsi al discorso dell’arte per orientarsi meglio nelle nebbie del presente.

Questo libro di Marco Sani e Renzo Rossellini ci insegna ancora una volta a scoprire come solo la conservazione e la cura di ogni dettaglio della memoria ci consente di rimuovere cumuli di detriti e di guardare con occhio più limpido e consapevole le stupefacenti fate morgane delle Settima Arte.


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