‘Butcher’s Crossing’: un romanzo, un’epopea 

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Tutto ciò che ha vita mostra segno di appagamento e il bestiame disteso sul campo pare attraversato da solenni e placidi pensieri…Qui scopriamo che la natura e’ la circostanza che sovrasta ogni altra circostanza, e giudica come un dio ogni uomo che si presenta al suo cospetto”.

 E’ con questi versi del filosofo, poeta, scrittore e saggista statunitense del XIX secolo, Ralph Waldo Emerson, che si apre la lettura di uno dei più belli e importanti romanzi della letteratura nord americana del ‘900: “Butcher’s crossing”, scritto da John Williams nel 1960, in libreria con Fazi Editore per la Collana ‘Le strade’ dal 18 giugno scorso (360pp, 10euro). Versi immanenti nello svolgimento degli accadimenti di questo romanzo che si snoda, nel 1873, tra un gruppo di baracche di legno, tagliate da una stradina sterrata, chiamato Butcher’s Crossing, uno sperduto villaggio del Kansas, e le montagne del Colorado.

Un incipit illuminante, quello utilizzato da Williams, sulla condizione dell’uomo alla continua ricerca di sè stesso, del proprio ruolo rispetto ad una natura soverchiante, impegnato in una perenne ed impari lotta per raggiungere con essa il giusto equilibrio. 

Ed’ è la natura selvaggia del lontano West che pervade in maniera ossessiva le pagine straordinarie di questo romanzo, in cui il protagonista, William Andrews, poco più che ventenne, abbandonate le agiatezze e le convenzioni di studente bostoniano, va alla ricerca della libertà e della bellezza, della speranza e del vigore, in quelle terre lontane; cose queste che riteneva essere le più intime della sua vita ma “che pure non erano libere, né belle, né piene di speranza o vigore”. Egli sapeva di essere alla ricerca di qualcosa che non conosceva ancora e chissà se conoscerà mai. Sono venuto qui perchè voglio conoscere il paese più che posso, disse al vecchio commerciante di pelli di bisonte McDonalds. “Voglio conoscerlo davvero. E’ una cosa che sento di dover fare”.

Una prosa aristocratica e intensa che trasporta il lettore nel pieno fervore di quello che è stato definito a buon titolo come il “mito della frontiera” – un mito (oggi sempre più sottoposto a giuste e profonde critiche) nato nell’‘800 in seguito alla conquista del West da parte dei coloni americani alla ricerca di nuove terre da abitare – in cui viene riflessa ancora oggi, sebbene in misura molto meno marcata rispetto ad un tempo, l’anima e lo spirito pionieristico del popolo americano e che ne pervade ancora oggi il suo spirito democratico. 

Una prosa in cui anche le scene più cruente della spietata caccia ai bisonti hanno una lirica intensa, che trascende la spietatezza dell’atto. Una caccia all’ultimo sangue, in cui è in gioco la stessa sopravvivenza del cacciatore nell’ inseguire ed affrontare quelle bestie così fiere, così orgogliose e colme di dignità della vita, nel loro incedere maestoso, almeno sino ad un istante prima di essere abbattute e ridotte ad un pezzo di carne macilenta, oramai spogliate di se stesse, con la testa penzolante.

Una caccia in cui anche mangiare il fegato crudo di quegli animali non era un fatto di ostentazione ma l’unico modo di scongiurare il “morbo del bisonte.

Un romanzo intenso e, al contempo, malinconico, che induce ad una riflessione sul significato della vita: “sono rimasto senza niente, perchè ho dimenticato quello che avevo imparato tanto tempo fa. Ho lasciato che le bugie prendessero il sopravvento. Anch’io avevo un sogno, e siccome era diverso dal tuo, mi sono illuso che non lo fosse. Ma ora lo so, figliolo. Mentre tu no. E tutta la differenza sta in questo”. Sono queste le parole che il vecchio commerciante di bestiame dirà al giovane bostoniano Andrews, al ritorno di questi dalla grande caccia ai bisonti, che oramai di bostoniano non ha più nulla.


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