#STRAGECAPACI – Le vittime sono ancora qui a chiederci Giustizia

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Il palcoscenico è pronto, resisterà anche ai divieti per emergenza “Covid 19”. Non c’è bisogno di un palcoscenico materiale, andrà in scena quello virtuale. Oggi tutto è pronto per far finta di parlare contro la mafia finendo con lo spar(l)are contro l’antimafia e questo a due anni del trentennale delle stragi del 1992, cominciando da quel 23 maggio dove Cosa nostra, quella più potente grazie alle complicità di “menti raffinatissime” – ricordate l’Addaura e quella bomba messa sugli scogli nel giugno 1989 – piazzando chili e chili di tritolo sotto l’autostrada di Palermo dilaniò i corpi di cinque Persone, pur di riuscire ad ammazzare il giudice Giovanni Falcone: morirono sua moglie, Francesca Morvillo, tre agenti della scorta, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonino Montinaro.

Spesso ho una sensazione che peraltro mi infastidisce, cioè quella di essere ancora in quei bui anni ’80. Le mafie che prosperano, ammazzano, fanno inciuci e accordi con politica e imprese, vivono dentro quell’area grigia della massoneria che lesta gli dà disponibilità preziose, i magistrati, non tutti, gli investigatori, non tutti, che cercano di combattere Cosa nostra, la società che nega l’esistenza della mafia e sopratutto della mafia borghese. Magistrati isolati che cercano di lavorare, parlano alla società, che cercando di entrare nelle banche e che vengono dapprima isolati e poi ammazzati, come succede a Gian Giacomo Ciaccio Montalto, pm trapanese, ammazzato il 25 gennaio 1983, o ancora a Rocco Chinnici, capo ufficio istruzione a Palermo, sempre e ancora in quel 1983. Le storie professionali poi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ancora oggi qui a ricordarci cosa erano quegli anni ’80, gli anni del maxi processo di Palermo, dei cittadini che però presto smisero di tifare per loro.

Oggi è vero duri colpi sono stati inferti alle mafie, in quegli anni ’80, evviva, il Parlamento votò la modifica del codice penale introducendo il reato di associazione mafiosa, ma è lo stesso parlamento che ha impiegato più di un ventennio per introdurre il reato di scambio politico mafioso, di legiferare sulle confische dei beni, sono stati presi tutti i grandi latitanti, eccetto uno, Matteo Messina Denaro ma nel frattempo le mafie hanno proliferato e cambiato pelle, niente più coppole e lupare, ma le grisaglie dei grandi uomini d’affari. Ai boss di un tempo, liberi o in carcere, è stato lasciato il compito di mafiare alla vecchia maniera, gestire le estorsioni, garantire sostegni elettorali, assicurarsi una certa presenza sul territorio, i nuovi mafiosi entrano ed escono dalle grandi city finanziarie, frequentano ministeri e uffici dell’Unione europea, non usano le armi, ma il denaro per corrompere.

Cosa nostra è cambiata, non ha vinto ma non è stata sconfitta. Eppure come in quegli anni ’80 si diceva che la mafia non esisteva, oggi ci sentiamo dire che è sconfitta. Cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, ci hanno insegnato a scuola a proposito di numeri, ma con le parole si ottiene lo stesso risultato. Pochi quelli che parlano della nuova mafia, tanti quelli che ancora dicono che Cosa nostra 2.0 esiste solo nella fantasia di qualcuno che fa antimafia…per far carriera, per avere smalto e successo, e dicendo così si disorienta la gente. E’ vero, c’è chi recita l’antimafia ma c’è chi la pratica per davvero, magari in silenzio, non pensa a carriera o benefit, anzi, senza tanti riflettori pronti ad illuminare il lavoro che si fa. E per fortuna c’è uno Stato che è capace di agire e sbugiardare il falso antimafioso. Ma c’è chi pronto butta via l’acqua sporca con tutto il bambino. In questa nostra società è difficile trovare esempi di responsabilità. E chi è responsabile nella vita, nel lavoro che si è scelto, viene dipinto come bugiardo e falso da chi fa finta di essere contro la mafia e invece la mafia a questa gente continua a piacere e piace un sacco.

Nelle periferie del nostro Paese questa è spesso l’aria che si respira, dove è intenso l’odore suscitato dalla diffidenza, dai dubbi, dove indagini vengono presentate come se fossero scritte su carta straccia. Ed è a questo punto che il fastidio diventa mal di pancia, dolore, dolore per chi non c’è più e queste assenze sono state utili a chi le ha provocate, si sono tolti dai piedi persone che potevano dare più fastidio che non dovevano andare oltre quel punto dove ognuna d’esse era giunta. Magistrati, investigatori, avvocati, giornalisti. Falcone e Borsellino maltratti dai colleghi e dal Csm, oggi altri giudici e magistrati vengono maltrattati da loro colleghi e sempre dal Csm, magistrati e giudici che in questi 28 anni hanno detto d’essere stati amici di Falcone e Borsellino e che poi si scopre essersi venduti per far carriera tagliando la strada ad altri. Magistrati che indagavano bene costretti a mettere mano al passaporto e andare via, in certi Palazzi di Giustizia esiste ancora un ventre mollo attraverso il quale il malaffare mafioso o non mafioso, le massonerie, riescano ad entrare per spiare e condizionare. Riuscendo ad ottenere sentenze salomoniche, sentenze che assolvono motivate con tanto di elementi che avrebbero dovuto far condannare, sentenze che colpiscono la mafia che intanto è diventata perdente e che riceve il colpo di grazia a tutto vantaggio di quella vincente che la fa franca.

Quello che ascolteremo oggi sarà il solito rosario sull’antimafia che non funziona e non vale niente, è la storia di sempre, c’è un’antimafia che vale più dell’altra, una storia che Falcone e Borsellino hanno conosciuto bene, citati oggi a più non posso anche da certi “Giuda”. E in questa rissosità purtroppo non manchiamo di partecipare anche noi giornalisti, che per riparare agli errori dobbiamo fare solo una cosa, riprendere a raccontare, a dire cosa c’è scritto nelle misure cautelari, nelle indagini e nelle sentenze, ma anche scavare attorno alle notizie. Le notizie non sono solo quelle dei comunicati stampa. Quando sento parlare di Capaci il dolore poi si fa più forte. Non solo per quella strage del 23 maggio 1992, ma per storie più recenti, che sono quelle di uomini delle istituzioni, dell’Arma dei Carabinieri, costretti a chiudere indagini e a subire vessazioni. Non dalla mafia, ma da loro colleghi, da ufficiali proni e generali succubi non si capisce di cosa. O meglio, si capisce e lo si è capito molto bene. Ci ha aiutato a capirlo un testo di Sciascia, “Il giorno della civetta”. Non è vero che casi come quello del capitano Bellodi appartengono alla storia della Sicilia, ma restano attuali e presenti. E le vittime di quella strage sono ancora qui tra noi a chiederci Giustizia, siamo in debito ancora con loro. Ci sono capitoli che la commissione nazionale antimafia ma anche quella regionale dovrebbero aprire per capire come mai a un maresciallo dell’Arma è stato privato il diritto dovere di indagare in quel paese il cui nome riecheggia in tutto il mondo per quello che lì è accaduto di tanto terribile. Ventotto anni dopo sentiremo ancora silenzio, tanto silenzio. Non ci sarà più quando la retorica abbandonerà la scena e a quel punto ascolteremo raccontate le verità.


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