“Regeni”, la parola proibita in Egitto

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Diciamo subito il dettaglio che dice tutto: gli egiziani non mi hanno consentito di chiamare nessuno. Ero lì già da ore, quando hanno lasciato un telefono un attimo incustodito. E ho scritto a mio padre. Quando ci spiegano che è giusto avere di nuovo un ambasciatore al Cairo, anche perché altrimenti, in caso di problemi, chi interviene?, la verità è che senza quel messaggio fortuito, oggi la Farnesina mi starebbe ancora cercando.  Poi, sì, la nostra console è arrivata subito. Ma hanno negato l’ingresso alla sua interprete. Per cui era lì: ma senza capire quello che dicevano. Questa è l’Italia in Egitto dopo Regeni.  Cioè. In realtà, non è solo questo. Quando sono atterrata da Milano, nella notte tra giovedì e venerdì, intorno alle tre, un cartello di benvenuto attendeva Carlotta, dipendente dell’ENI. Primo produttore di idrocarburi dell’Egitto. Ma io non lavoro per l’ENI. Io sono solo una giornalista. E quindi, al controllo passaporti non mi è toccata la corsia preferenziale, ma una porta alla sua destra, e un tetro cunicolo che apre su un labirinto di stanze buie e scalcinate della National Security. Niente di nuovo, comunque. Non sono che l’ultima di un lungo elenco. In questi anni, sono stati rispediti indietro decine di giornalisti. Dal New York Times in giù. E noi italiani, in più, abbiamo questa colpa dell’inchiesta Regeni. Perché in paesi come l’Egitto, a cui la procura di Roma chiede da mesi, inutilmente, di ascoltare un nuovo testimone, arriviamo lì dove per la magistratura è più difficile arrivare. E l’inchiesta Regeni, non posso dire di più, ora – ma per noi certo non è chiusa. Anche se forse, come mi hanno detto un po’ sinistri, sono stata fortunata a essere fermata subito. Mentre ero lì, sono andati a prendere a casa il corrispondente dell’Associated Press. Secondo Amnesty International, in Egitto spariscono tre Regeni al giorno.  E in queste settimane, al-Sisi è particolarmente nervoso. Gli egiziani sono tornati in piazza. Ma questa volta, chiamati non dall’opposizione, ma da una figura interna al regime: un imprenditore che con dei video su Youtube ha iniziato a raccontare di sprechi, e tangenti, e appalti truccati per milioni e milioni di dollari – mentre un terzo della popolazione è sotto la soglia di povertà. E così, mi hanno subito rinchiuso in questo ufficio umido e malconcio di schedari arrugginiti e tavoli in formica sbreccata. Ad aspettare, al fondo. Aspettare e basta. Perché poi, sapevano già tutto di me: non è che avessero bisogno di chiedermi molto altro. E per cui mi hanno tenuto lì, semplicemente, per ore e ore, in questo ufficio anonimo e insignificante, così simile, probabilmente, a quello in cui all’inizio si è ritrovato Giulio Regeni: ma senza la fortuna di un telefono lasciato un attimo incustodito – questa specie di lazzaretto in cui finiscono quelli fermati per motivi politici, e soprattutto, i migranti irregolari, dei poveri cristi magri, esausti, con le magliette lacere, le scarpe mezzo sfondate, perquisiti più e più volte anche se in tasca non avevano che un biscotto sbriciolato: mentre trafficanti e affaristi di ogni tipo, intanto, viaggiano con i passaporti europei che si comprano a Malta. Ed era veramente la banalità del male. Perché in sé, poi, cosa succedeva? Niente. Gli agenti guardavano un po’ le telecamere di sorveglianza, e un po’, su un altro schermo, una telenovela che è una specie di Un posto al sole arabo. Ognuno con il suo piccolo ruolo. Chi confiscava i cellulari, chi compilava moduli, chi si rubava il biscotto, chi serrava le porte a chiave, chi interrogava, una domanda uno, una domanda un altro. Ognuno il suo contributo. E in mezzo, questa console occidentale. Di una gentilezza infinita: ma era lì senza manco l’interprete, e quando mi chiamavano per un altro paio di domande, insisteva, caparbia, per venire con me, ma poi andava a riferire ai diplomatici rimasti fuori, e quelli subito mi interrogavano di nuovo da sola – anche lei, inevitabilmente, nient’altro che un ingranaggio, mentre mi spiegava quanto è bello oggi il Cairo, città cosmopolita, come si vive bene. I cinema, i concerti. I teatri. Mi spiegava tutto, tranne l’unica cosa che volevo sapere: che crimine ho compiuto.

L’unica priorità era che poi la stampa, l’indomani, non si inventasse che l’Egitto non lascia entrare chi si occupa di Regeni. L’unica priorità era rispedirmi via. Ho ripetuto che pretendevo una motivazione, e una motivazione scritta, persino la polizia, poi, in Italia, nel restituirmi il passaporto, mi ha detto: Ma come è possibile? Siete andati via senza neppure un pezzo carta? – l’ho ripetuto, e ripetuto, perché è un mio diritto, e a me, mi scuserà la console, che davvero, è stata di una gentilezza infinita, ma a me non mi interessa che dall’ambasciata arrivino con l’acqua e il panino: dalla mia ambasciata io voglio essere difesa. Difesa a restare dentro. Non a restare fuori. Altrimenti non aiuti me. Aiuti al-Sisi. Perché poi, quando la nostra console è andata infine a prenotare il volo di ritorno, ho chiesto a un agente di avvisare per favore mio padre del mio rilascio. E questo, pensando che non capissi l’arabo, ha detto a un altro una cosa tipo: La bimba cerca il papà. E a quel punto, ero sfinita, ero lì da ore, e ho perso le staffe, gli ho detto: “Senti, avete vinto. Ma ora basta. Ora mi rispetti: e mi rispetti perché sono italiana come Giulio Regeni” – e non avessi mai detto: “Regeni”, la parola proibita, che fino ad allora nessuno aveva pronunciato ad alta voce: hanno cominciato a urlarmi di tutto. “Shut up! Shut up!”, Stai zitta!, e dalla stanza accanto, è subito sbucato il capo di questi quattro bulli di paese in divisa e ciabatte, un ufficiale con il riporto che sembrava uscito da un film di Lino Banfi, e stava lì incollato alla telenovela, “Ma che vuoi? Ma taci!”, ha urlato, e mi ha spedito in punizione all’angolo, come all’asilo – perché poi questo è, questo regime di al-Sisi da cui l’Italia si fa umiliare: quattro cialtroni che uno qualsiasi dei nostri carabinieri avrebbe rimesso in riga in due minuti.  E noi no, invece. Noi tutti cortesi e deferenti. A differenza degli egiziani. Che onestamente, è quello che mi ha colpito di più. Non avevano un console vicino. Rischiavano molto più di me. Rischiavano davvero. Eppure, trovavano tutti il modo di esprimermi solidarietà – e non solo i fermati: persino due degli ufficiali. Un uomo, a un certo punto, mi ha chiesto: Sei tu l’italiana? “Sorry”, mi ha detto. Mi ha detto: Questo non è il vero Egitto. “Sorry. And sorry for Regeni”. Poi ha detto: “Verrà giustizia”.

Ambasciatore Cantini. E lei, lei che dice?


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