Mafie e caporalato a pochi chilometri dal piccolo Molise

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Il caporalato, divenuto reato nel 2011, è, senza dubbio alcuno, un “reato spia” di infiltrazioni criminali nel settore agricolo. Un sensore criminale quasi del tutto inesplorato a livello giudiziario. Il cd. tavoliere delle Puglie, ad esempio, subisce forti condizionamenti da parte delle mafie. Durante la stagione agricola, nella zona del foggiano, vive una popolazione di “invisibili”. Stranieri che lavorano nelle campagne, lontano dagli occhi dei centri abitati, spesso alloggiati in baracche fatiscenti, sfruttati e mal pagati da caporali e imprenditori indegni del loro ruolo. Il loro impiego nelle campagne è capillare.

È anche grazie al loro lavoro se certi prodotti arrivano sulle nostre tavole, eppure la loro vita, che di umano ha ben poco, resta confinata nel silenzio generale. Tra la Puglia e il Molise, molti datori di lavoro e imprenditori truffano o ingannano i lavoratori stranieri, non corrispondendo loro i salari maturati, o facendoli lavorare in nero, accompagnando il trattamento con minacce più o meno velate e forme di violenza psico-fisica (manifeste o paventate). Esseri umani sfruttati come veri e propri schiavi. Si stima che il giro d’affari connesso alle agromafie sia compreso tra i dodici e i diciassette miliardi di euro, il 5-10% di tutta l’economia mafiosa. Nonostante la nuova legge abbia inasprito le pene, perseguendo anche i titolari delle aziende agricole, la figura del caporale, non è ancora scomparsa. In Puglia, nell’ultimo decennio si sono formati dei veri e propri “gruppi criminali” che usano migliaia di braccianti stranieri per i loro scopi illeciti. Li collocano a ridosso delle vecchie borgate agricole disabitate.

Il più noto è il ghetto di Rignano Garganico, dove vivono un migliaio di braccianti africani, ma ce ne sono almeno una decina in tutta la provincia di Foggia. Lavorano tutti sotto caporale. Sono i nuovi “schiavisti”, che mediano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro nell’agricoltura. Sono loro a fornire, e a volte a imporre, ai proprietari terrieri squadre di lavoro “disciplinate” i cui membri accettano di lavorare per meno di venti euro il giorno a volte anche per dodici ore consecutive. In Puglia, spesso, per la fatica e il gran caldo, i braccianti stranieri muoiono nella più totale indifferenza. Di loro non c’è traccia né negli obitori, né i posti di pronto soccorso. Sono come fazzoletti di carta che una volta usati si buttano. Pertanto, non è improbabile che il corpo sia fatto sparire proprio dalle organizzazioni mafiose locali. Proprio perché il settore è gestito dalle mafie, diventa arduo oltrepassare una fitta coltre fatta di silenzi, non detti, omertà, paura di ritorsioni. Per questo molte indagini spesso si risolvono in un nulla di fatto.

Il maggior intreccio di sfruttamento, degrado e violenza si evidenzia tra la Puglia e il piccolo Molise, e in particolare nelle campagne del tavoliere proprio a confine con il litorale molisano. Basta girare per le strade interpoderali pugliesi e basso molisane, per capire che di quell’intreccio non si avvantaggiano solo pochi imprenditori agricoli. Lo sfruttamento avviene nella raccolta del pomodoro, dell’uva, della frutta o dei meloni. Fino a pochi anni fa, se domandavi in alcuni paesi agricoli pugliesi e molisani, ti sentivi rispondere che il caporalato non esisteva e se c’era, era ristretto a pochissimi casi. Questa risposta, ricorda le tesi negazioniste proprio a proposito di mafia. In Molise quando si parlava di mafie, la risposta era, e per alcuni ancora è: il nostro territorio è un’isola felice. Purtroppo entrambe le tesi sono smentite dai fatti. Non solo il caporalato esiste, ma spesso sono proprio le mafie a controllare ogni anno decine di migliaia di braccia, com’è evidenziato proprio dall’ultimo Rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto.

Che cosa fare in proposito non è semplice. A mio giudizio non occorrono leggi speciali ma basterebbe trasparenza, controllo, sanzioni culturali e sociali (oltre che giudiziarie). Lo Stato dovrebbe aggirare il ruolo dei caporali facendo incontrare domanda e offerta in maniera lecita e pubblica. I braccianti dovrebbero iscriversi nelle liste, i datori di lavoro vi dovrebbero accedere e metterli in regola, agevolati magari da sgravi fiscali. Non dimentichiamoci che il caporale non è solo chi controlla la manodopera, è anche quello che la trasporta su furgoni, per cui, si potrebbe anche creare un sistema alternativo di utilizzo dei mezzi pubblici. Si dovrebbe favorire in ogni modo il prodotto agricolo libero dal caporalato favorendo campagne simili a quelle che discriminano i prodotti che sfruttano la schiavitù minorile. Sarà anche vero che il caporalato non possa essere ridotto solo a un problema di mafia, ma è pur vero che le organizzazioni criminali lucrano sullo sfruttamento dei braccianti prodotto e alimentato dalle imprese e da un sistema internazionale incentrato soprattutto sul potere della grande distribuzione. Dalle due nuove leggi per la lotta al caporalato pochissimo è cambiato poiché oltre un terzo dei braccianti è ancora sfruttato al limite della schiavitù. I risultati simbolici sono arrivati, ma sul piano concreto è cambiato poco o nulla: se domandate a un bracciante che lavora nei campi del tavoliere se in questi anni la sua condizione è migliorata, vi risponderà sicuramente di no. È su questo “no” che occorrerà lavorare alacremente nel prossimo futuro affinché possa trasformarsi in un convinto “si”!


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