I diritti umani in Iran e le responsabilità dei giornalisti

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Non passa giorno che non salti fuori una notizia di violazione dei diritti umani in Iran: vi è dunque un’ampia disponibilità di informazioni, che rivela la grande vivacità e consapevolezza della società civile iraniana, oltre che una vasta ed efficace rete di comunicazione che ne raccoglie le segnalazioni e raggiunge i desk redazionali. Anche se sta forse proprio qui uno dei temi su cui ci dovremmo interrogare: perché tanta informazione proprio dall’Iran e sull’Iran?

Fra le notizie più recenti, la condanna ad oltre dieci anni di reclusione e 148 frustate per la giornalista Marzieh Amiri, reporter per le pagine economiche del quotidiano riformista Shargh, accusata di riunione e collusione contro la sicurezza nazionale, propaganda contro lo stato, disturbo dell’ordine pubblico. Era stata arrestata il primo maggio scorso, mentre copriva una manifestazione di lavoratori di fronte al parlamento, e riferiva nel suo lavoro delle difficoltà economiche degli iraniani. Secondo il Center for Human Rights in Iran (CHRI) almeno altri sei giornalisti sono stati perseguiti dalla magistratura solo nel 2019. A pronunciare la sentenza, che ora dovrà essere confermata in appello, la branca n.28 della Corte rivoluzionaria (organismo giudiziario parallelo alla giustizia ordinaria) presieduta dal giudice Mohammad Moghiseh: lo stesso magistrato che ha condannato – riferiscono la famiglia e le ong per i diritti umani – a 33 anni di reclusione e 148 frustate l’avvocato Nasrin Sotoudeh, già in carcere per una precedente sentenza, e colpevole fra l’altro di aver difeso diverse donne arrestate per essersi ribellate all’obbligo del velo – anche se la nuova e pesante pena effettiva da scontare è di 12 anni, quella per il più grave dei sette reati contestati.

A proposito di donne ribelli al velo, l’ultima sentenza in ordine di tempo è stata nei giorni scorsi per Saba Kord-Afshari, condannata a 24 anni secondo lo stesso CHRI, basato a New York. Che ricorda anche come siano almeno 12 le donne condannate per la stessa accusa dal gennaio 2018, quando iniziarono le proteste contro il velo obbligatorio, e 32 quelle arrestate. Lo stesso centro ha anche commentato con il Manifesto la recente sentenza della corte amministrativa di Ishfahan di rilasciare ad una giovane motociclista la patente per la guida di motocicli. In Iran non ci sono leggi che vietano esplicitamente l’uso di moto e motorini alle donne, che possono guidare auto, bus e perfino camion. «Si tratta piuttosto di un modus operandi adottato arbitrariamente dalla polizia stradale e supportato dalle autorità religiose e dalle fazioni più conservatrici della società”, ha detto Jasmin Ramsey. “È una questione legata all’equilibrio di poteri – ha aggiunto -, non di giustizia”.

Con poche buone notizie e tante cattive, l’elenco di episodi in cui sono stati violati dei diritti umani in Iran – a partire da quelli ad un equo processo ed alla proporzionalità della pena, per finire con un’ancora troppo vasta e troppo spesso opaca applicazione della pena di morte – potrebbe dunque continuare all’infinito, visto anche il rilevante numero di Ong internazionali che raccolgono tali denunce e se ne fanno portavoce. Tanto lungo è questo elenco che alla fine da giornalisti dobbiamo scegliere, e secondo criteri che rispondano alla necessità che la notizia abbia più visibilità e risonanza – criteri insomma più mercantili che umani. E con una netta prevalenza delle notizie che riguardano le donne, filone che risveglia l’interesse dei lettori molto più di altri. In fondo, una donna giovane e bella condannata a carcere e frustante fa più notizia di uno sconosciuto curdo impiccato per oscuri motivi in qualche area periferica e che mai passerà ai transeunti onori delle cronache.

D’altronde, digitando “diritti umani Iran” su Google News si trovano oltre 36 mila risultati. Se la stessa ricerca si fa per l’Arabia Saudita, il grande rivale di Teheran sul piano geopolitico oltre che fedele alleato degli Usa e dell’Occidente, i risultati si fermano a circa 19 mila, con prevalenza delle notizie neutre o ‘positive’ almeno nella prima schermata che ci appare.

Da giornalisti, allora, forse dovremmo chiederci come mai vi sia questa differenza. Forse che la Repubblica Islamica compie più violazioni dei diritti umani perché conta 80 milioni di abitanti invece dei 31 milioni di sudditi della vicina potenza petrolifera araba? Forse che questo accade nonostante si tratti di una “repubblica” islamica, in cui presidente e parlamento sono eletti ogni quattro anni a suffragio universale, mentre nella “monarchia assoluta” islamica con sede a Riad si eleggono solo i consigli municipali e il re è affiancato soltanto da un’assemblea consultiva? Forse perché fa indiscutibilmente più notizia l’ennesima condanna in Iran rispetto all’ennesimo vano appello di Amnesty International per la liberazione di almeno 14 attiviste in carcere per avere difeso, negli anni passati, i diritti delle donne e i loro diritti umani? Donne finite dietro le sbarre, torturate e violentate, sempre secondo Amnesty, nonostante avessero combattuto per quegli stessi diritti – di guidare la macchina o di viaggiare senza il permesso di un tutore maschio – che nel frattempo sono stati loro regalmente concessi dal principe erede riformatore – oltre che presunto mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Khasoggi – Mohammad Bin Salman.

Interroghiamoci, dunque. E chiediamoci anche se davvero possiamo limitarci, proprio noi giornalisti, a dare notizia delle pur ingiuste condanne senza cercare di spiegare, ogni volta, il contesto in cui avvengono. Forse che fare il giornalista vuol dire fare copia/incolla delle notizie fornite da altri? O non significa anche – sempre che i nostri editori ce ne diano il tempo e le forze – inserire tali notizie (senza dimenticare di citare la fonte da cui provengono) nei contesti in cui i fatti sono maturati? E cercare di dare al lettore gli strumenti per comprendere tali contesti?

Per esempio, una delle possibili chiavi di lettura del ripetersi di pesanti condanne e violazioni dei diritti della difesa da parti di Corti rivoluzione può ricondursi al fatto che in questi anni di “massima pressione” Usa contro l’Iran l’ala ultraconservatrice del sistema, cui appartengono la magistratura e le strutture repressive e di intelligence in mano ai Pasdaran, si é rafforzata. E che mentre Trump usciva dall’accordo sul nucleare e lasciava mani quasi libere ai falchi anti-iraniani – con gran soddisfazione dei falchi anti-Occidente in Iran – l’Europa poco o nulla faceva per sostenere le forze moderate e riformiste che invece si erano giocate tutto sull’accordo sul nucleare del 2015 e sulle prospettive di sviluppo, benessere e fruttuose interazioni con l’Occidente che ne sarebbero derivate.

E allora da giornalisti ci potremmo chiedere se le stesse violazioni dei diritti umani che oggi ci troviamo a segnalare ci sarebbero ugualmente state e, se sì, in quale misura. E allora sicuramente troveremmo, in Iran come all’estero, un sacco di gente che sostiene che la Repubblica islamica è inemendabile e dunque solo rovesciabile (e qui si pone il problema di come questo possa accadere in modo indolore). Ma anche molte altre persone convinte che un processo di riforma interna graduale è sicuramente preferibile alle incognite di una nuova rivoluzione, a soli 40 anni dalla prima, peggio ancora se indotta da interferenze esterne.

Oppure potremmo seriamente porci il quesito: ma la violazione dei diritti umani – così come la civiltà occidentale e il diritto internazionale li hanno formulati – è davvero intrinseco ad un “sistema” che pone le sue fondamenta sul diritto islamico? E questo stesso diritto islamico – e qui sintetizzo a grandi spanne alcune precisazioni di Raffaele Mauriello, docente italiano alla Allameh Tabataba’i University di Teheran – si riduce forse al generico e ideologico concetto di ‘sharia’, o forse non viene invece diversamente declinato in scuole giuridiche storicamente diverse, o codificato con norme scritte in certi casi (come appunto in Iran) e discrezionalmente applicato dal giudice in altri (come appunto nella ultraconservatrice Arabia Saudita)?

Certo, la storia e la cronaca non si fanno con i “se”, ma l’Occidente non può sfuggire all’obbligo di interrogarsi sulle sue responsabilità nella stretta repressiva di questi ultimi anni. E noi giornalisti dovremmo più semplicemente chiederci se è solo per abitudine o pigrizia o conformismo che perseveriamo, riforniti da attivisti e uffici stampa, nell’inseguire il sempreverde filone dei diritti umani in Iran, invece che andare a cercare altre violazioni in altri paesi, meno esplorati e sicuramente più opachi della chiacchieratissima Repubblica Islamica. A meno che non vogliamo trasformarci in attivisti pure noi, perdendo quella ‘giusta distanza’ dai fatti che – almeno ad avviso di chi scrive – non dovremmo mai smettere di perseguire. E ancora a meno che, più o meno consapevolmente, non ci facciamo noi stessi megafoni di campagne volte non tanto a difendere i diritti umani degli iraniani, quando ad annientare un rivale geopolitico troppo indipendente dall’Occidente e addirittura a perseguire un irresponsabile regime change. Un cambiamento di regime che invece non vediamo auspicare per i massacratori del collega Khasoggi, che invece tanto lo vorrebbero per i loro scomodi vicini persiani.

E infine potremmo anche chiederci se il primo diritto umano degli iraniani, come di ogni altra nazione, non sia quello di determinare autonomamente, e senza ingerenze esterne più o meno animate da buone intenzioni, il proprio destino. Il nuclear deal poteva forse essere una strada per aiutarli in questa direzione. Oppure no, come qualcuno fermamente sostiene. Di sicuro – e la cronaca e forse anche la storia già lo hanno certificato – , nessuno lo ha potuto verificare.


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