Il Medio Oriente, tra Trump e Putin. Intervista a Janiki Cingoli (Cipmo)

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«Le minacce lanciate da Trump di un possibile attacco missilistico in Siria sono preoccupanti. Il presidente Usa, però, ci ha anche abituati a proclami che sono andati a vuoto». Ne abbiamo parlato con Janiki Cingoli, presidente del Centro Italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo)

Cresce la tensione tra Russia e Stati Uniti dopo l’attacco con il gas a Duma (Siria). Immediate sono giunte le minacce di ritorsioni fatte dal presidente americano Trump dopo l’incontro ravvicinato fra aerei russi ed il cacciatorpediniere statunitense Donald Cook. Mosca ribadisce l’intenzione di non tollerare nessuna possibile azione militare da parte di Washington.

 «Il Medio Oriente tra Trump e Putin. Quale ruolo per l’Europa?» è il titolo del primo di quattro appuntamenti per il ciclo «Percorsi Mediterranei 2018» promosso dal Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (Cipmo) in partnership con il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino e in collaborazione con il Centro Piemontese di Studi Africani (Csa) e il Centro Studi di Politica Internazionale (CeSPI). Un incontro che si terrà giovedì 19 aprile alle 15 presso l’Aula F3 al Campus Luigi Einaudi Lungo Dora Siena, 100 Torino.
Abbiamo chiesto a Janiki Cingoli, presidente del Cipmo, un’analisi della situazione geopolitica attuale, alla luce delle recenti evoluzioni.

Trump minaccia Putin dopo le presunte bombe chimiche utilizzate a Douma in Siria, paventando addirittura il lancio di missili. Professor Cingoli, possiamo davvero aspettarci una nuova guerra improvvisa e su scala mondiale?
«Le minacce lanciate da Trump di un possibile attacco missilistico in Siria sono preoccupanti. Il presidente Usa, però, ci ha anche abituati a proclami che sono andati a vuoto, utilizzati come “effetto annuncio”. Lo ha già fatto in passato con la Corea del Nord. Fortunatamente, le ultime dichiarazioni rilasciate dal Dipartimento di Stato americano erano decisamente più caute delle “minacce twittate” da Trump».

Quali sono le parti in gioco?
«Sono tante. C’è anche Israele, che pare abbia indicato al Ministero della Difesa americana alcuni obiettivi sensibili da colpire, come ad esempio la vicina base a Damasco, dove si sospetta che si stiano realizzando dei nuovi impianti di armamenti nucleari. In queste ore stiamo vivendo una situazione che definirei border line. Una situazione che potrebbe, in qualsiasi momento, prendere direzioni inaspettate».

Israele, in questa delicata situazione, è impegnata a difendere le alture del Golan. È così?
«Certamente. Era stato annunciato da parte degli Hezbollah iraniani un loro possibile insediamento. Da trentacinque anni le alture del Golan sono contese tra Siria e Israele e occupano un’area prevalentemente montuosa che si estende per circa 1.800 chilometri. Sono un punto di passaggio e di confluenza di un terzo delle risorse idriche di Israele e sono una “torre di guardia” importante perché confinano con Siria, Libano e Giordania. Inoltre un insediamento di truppe siriane diverrebbe per Israele un grave problema. Dobbiamo ricordarci anche che Assad padre e figlio sono sempre stati i “migliori nemici” dello Stato di Israele. Tuttavia, malgrado la loro atavica rivalità, credo che Israele preferirebbe avere come vicino Assad, per non ritrovarsi sull’uscio di casa le truppe filo iraniane. Cosa che lo stesso Netanyahu, sempre nel gioco delle parti e rivolgendosi questa volta a Putin, stava già cercando di evitare».

E la Russia di Putin quale ruolo ha per frenare l’alleanza anti-Assad?
«La Russia di Putin sta espandendo e rafforzando la sua presenza in Medio Oriente, divenendo dominus in Siria, in alleanza con Iran e Turchia. È in atto una tendenza al ripristino della logica bipolare tra le due potenze Usa, Russia. La recente dichiarazione di Trump, quella di voler ritirare le proprie truppe dalla Siria ha dato il via libera alla spartizione del territorio siriano tra Russia, Turchia e Iran, nelle zone maggiormente influenti. Trump, strategicamente, grazie al pretesto delle armi chimiche, ha deciso di intervenire per riequilibrare i rapporti di forza. A Trump, in realtà, interessa far prosegue l’alleanza di ferro con Israele, Arabia saudita e gli altri paesi arabi sunniti, in funzione anti-iraniana, favorendo la contrapposizione del blocco arabo sunnita a quello sciita».

Perché si parla sovente di un possibile «ritiro» degli Usa dal Medio Oriente. È un’ipotesi plausibile?
«È un’analisi che non condivido. Da una parte ci sono in campo la Russia e l’Iran, che pur muovendosi insieme spesso sono in conflitto tra loro; poi il blocco con Usa, Israele e Arabia Saudita, e in qualche misura anche l’Egitto, seppur con le sue oscillazioni e contraddizioni. Tutti in concreto sono impegnati per ottenere una maggior presenza nell’area mediorientale».

Il conflitto israelo-palestinese come dev’essere collocato in questo contesto?
«Il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come Capitale di Israele, ha causato il netto rifiuto dei palestinesi che hanno rotto – almeno ufficialmente – tutti i rapporti con gli Usa e stanno dunque cercando nuovi partner internazionali per rilanciare il processo di pace: dall’Unione Europea, alla Russia, alla Cina, all’India. In questo momento sono in atto tra le fila palestinesi movimenti interni per ridefinire le nuove leadership politiche. La situazione, purtroppo, sta peggiorando giorno dopo giorno. Il conflitto israelo-palestinese si acuisce ogni qual volta la situazione geopolitica generale si complica».

E la Turchia come si colloca in questo scenario geopolitico?
«È un altro elemento nello scacchiere, ma ancora più ambiguo, direi “doppio”. Da un lato è membro delle Nato e sta prestando le sue basi agli aerei americani impegnati nelle ricognizioni, o chissà in futuro, per eventuali bombardamenti in Siria; dall’altra la Turchia si è alleata con la Russia in Siria pur di avere mano libera sui Curdi al Nord, sostanzialmente abbandonati dall’alleato Usa. Inoltre, sta portando avanti con la Russia il progetto del gasdotto Turkish stream e il suo primo progetto di reattore nucleare per la produzione energetica. Erdogan, da un lato, con tendenze neo-ottomane si presenta come il nuovo leader e sostenitore dei palestinesi, dall’altra non recide gli stretti rapporti con gli Usa e con la Nato».

E l’Europa?
«L’Unione Europea dovrebbe rafforzare la sua presenza nel Mediterraneo nell’intera area, che sta diventando sempre di più uno snodo centrale commerciale, energetico, logistico e demografico; soprattutto dopo il raddoppio del Canale di Suez. L’Europa, purtroppo, è ancora divisa al suo interno e con molti paesi neo arrivati dall’Est. La sua posizione è confusa e in atteggiamento di “attesa”».

Che fine ha fatto l’Isis?
«È stato pressoché sconfitto e respinto dalle aree siro-irachene in cui aveva insediato il suo califfato. Ora cerca di rilanciarsi  con le crescenti azioni terroristiche in Europa, Usa, Africa ed Estremo Oriente. L’allerta terrorismo, purtroppo, non è finita…»

Fonte: Riforma.it


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