Platone e l’Operaio Infelice – Pt. 1

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“Col sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra” – potrebbe sembrare la minacciosa prolessi d’un capo nazista ai deportati in un campo di concentramento, invece si tratta, più o meno paradossalmente, del verbo di Dio contenuto in un noto passo del libro della Genesi e rivolto all’intera umanità che presso il suo giardino dimora. Tale premessa vuole abbozzare una visione particolare del sentiero dell’uomo nel mondo: questo può esser letto solo con parzialità tendenziosa come il romantico viaggio di un viandante che appaga di passo in passo la propria curiosità, ma anche, e ben più frequentemente, come quello di un detenuto forzato a perseverare nella prigione del mondo – tale, ad esempio, è la visione di Platone. E quale oggetto particolare della vita umana è travolto dall’anatema originario che Dio pronunciò? Per metonimia dal ‘pane’, assumiamo che tale oggetto che andremo ad indagare sia il lavoro.

In questa prospettiva, che molto ha da condividere con quella contemporanea, il lavoro non è una scelta, un vezzo od un imperativo volto a soddisfare la propria opera, ma un castigo, una forzatura inaggirabile che rivela costantemente la strutturale manchevolezza dell’uomo in virtù della quale egli è costretto ad adoperarsi. La radice indicante la celeste condanna, infatti, ricade ampiamente sullo spettro etimologico di lavoro: il labor latino sta per “fatica”, il francese travaille come lo spagnolo trabajo ed il portoghese trabalho condividono l’etimo di “travaglio”, dal latino medievale tripálĭus, ordigno costituito da tre pali usato come strumento di tortura; l’inglese work deriva dalla radice indoeuropea worg stante per ‘fatica fisica’. L’antico greco pònos condivide la radice indoeuropea del latino pœna. Il tedesco Arbeit fiorisce nell’immaginario collettivo con rimandi ben più tragici e recenti.

La percezione del connotato coercitivo del lavoro è riscontrabile anche in locuzioni proverbiali quali “dolce far nulla”, o nel tanto celebrato concetto aristocratico dell’ozio (letterario o meno). Il plauso di questa condizione privilegiata è legittimato dal fatto che, verosimilmente, chiunque disponesse di macchinari o subordinati sufficienti ad assolvere tutti i propri doveri, non esiterebbe un istante ad abdicare al proprio intervento pratico. D’altronde, il termine negotium , il diligente operare latino, è una definizione negativa dell’otium, del quale, dunque, dev’essere una condizione eccezionale e al quale non deve dimenticare di tendere come fine.

In altri termini, si lavora per poter non lavorare più – che è, un po’, l’ideale sul quale s’innesta la pensione ed il diritto a goderne. Secondo questa lettura, è importante notarlo, l’elemento fondamentale che viene meno è la vocazione originariamente morale del lavoro. Con ciò non s’intende che, in prospettiva, il lavoro venga inevitabilmente condotto immoralmente, ma che la morale non può in alcun modo essere ciò che lo origina, ciò che lo irrora e autonomamente giustifica. Il lavoro, insomma, non può essere volontariato.

Balzando nell’antichità, parallelamente e tangentemente a questo tema, osserviamo però come i più noti filosofi antichi, anche fra i più strenui sostenitori dell’inoperosità materiale come fine quali Aristotele, abbiano quasi unanimemente ritenuto che la felicità, qualunque cosa essa sia, dev’essere indissolubilmente legata all’atto, quandanche essa non si identificasse con questo ma con uno stato, un habitus. Così, sebbene il lavoro non sia la chiamata (beruf, come si dice in Tedesco) perentoria di un’origine, cionondimeno non si può esser felici rinunciando integralmente all’operare e alle proprie opere.

La condanna s’allevia un po’: il lavoro può, forse, riscattare da una condizione naturalmente manchevole, tendendo non ad un languore immobile ma ad un appagamento. Ma, non appena si esca da questa trasversale riflessione, è necessario contestualizzare il lavoro non solo come oggetto teorico, ma anche e soprattutto come oggetto pratico e storico. Non esiste mai, infatti, l‘atto produttivo, ma un atto produttivo; non esiste operare che non si confronti con le condizioni storiche del suo realizzarsi. E gettando sinotticamente un’occhiata diacronica sulle continuità e le interruzioni che attraversano i significati storici del lavoro scopriamo inevitabilmente che il coefficiente più costante nella sua evoluzione è quello dell’efficientizzazione, incremento della qualità come della quantità del prodotto.

Questo assunto, che sembrerebbe un po’ troppo moderno per adattarsi con adeguatezza retrospettivamente, insieme al processo di divisione del lavoro, non sono integralmente, dunque, raffinate intuizioni economiche degli ultimi secoli, ma, pur gradatamente, una soluzione antropologica già predelineata da molte civiltà arcaiche che, nella specificità della produzione suddivisa, riconoscevano facilmente l’evidenza dell’incremento.

Ciò che dev’essere considerato il primato della modernità nella divisione del lavoro, negli scenari industriali di Marx alle teorie tayloriste e fordiste primo novecentesche, è che essa ha cessato di costituire una parte del processo produttivo ed è stata assunta a totalità del processo produttivo, alla quale ogni altra fase dev’essere subordinata e tendere. A tali conclusioni, ovviamente, né i nostri ‘simili’ proletari arcaici, né qualsiasi altro uomo ai primordi della civilizzazione o anche in essa addentrato, poté mai pervenire, sia a causa dell’assenza di supporti materiali, ma anche proiettivamente per l’inutilità di una forza produttiva che tanto ecceda il fabbisogno individuale e collettivo.

Infatti, proseguendo come sopra: perché produrre, quando non ve n’è più ragione? Si palesa così come un sistema di mercato che goda già di un’ampia estensione del potere d’acquisto sia una condizione necessaria per l’incremento della produttività, idealmente senza limite poiché convertibile in valore potenziale e trasferibile in qualsiasi altro contesto futuro. Solo quando tutto dipende dal denaro, la sovraproduzione si fa una conditio sine qua non di potere, ma anche ben più semplicemente di sicurezza, per i produttori.

L’effetto della realizzazione nei modi descritti della divisione del lavoro è il costante allontanamento dell’opera dal suo autore: ciascuno partecipa alla produzione in quanto momento, e non in quanto responsabile diretto del suo prodotto. Questo processo dialettico che eleva la merce a fine dell’uomo recide con un sol gesto la reciprocità fra soggetto e sua opera e la sensatezza stessa dell’operare, riassunte in quella che Marx chiamava notoriamente alienazione. Ma non era esattamente in vista dell’opera che possa rendere felici, la propria, che s’era cominciato a lavorare? Sembra che le esigenze del capitalismo siano inconciliabili con le premesse filosofiche eudemonistiche del lavoro.

È a partire da questa biforcazione d’istanze che siamo soliti distinguere le locuzioni “realizzazione personale” e “realizzazione professionale”, quasi le due non avessero per soggetto il medesimo individuo – come suggerisce narrativamente Milan Kundera nel personaggio di Chantal de “L’Identità”. L’ambiziosa ricongiunzione di questi due processi non può che essere faticosissima, in quanto dovrebbe ricondurre all’uomo la sua opera, salvandola come oggetto di desiderio, incentivo d’attività e, simultaneamente, conservare il suo valore di scambio, così che la sua realizzazione non precluda la vita e la sopravvivenza sociale. Il vero lavoratore, per citare impropriamente e provocatoriamente un esteta recente, “fa della propria vita un’opera d’arte” – ed è sintomatico osservare quanto oggi, fra posti impiegatizi, turni in fabbrica, camerieri, donne delle pulizie ed infiniti altri, la quasi totalità delle mansioni professionali sia quanto di più distante da questo rapporto vivo fra soggetto e lavoro.


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