Il Colore del Denaro (IV) – La Provvisorietà del Palmo di una Mano

0 0

Karl Marx teorizzava che l’avvento del Comunismo avrebbe comportato la destituzione della proprietà privata, diritto borghese per eccellenza. Alla perentorietà di questa presa di posizione, i detrattori del marxismo hanno sempre ingenuamente obiettato che la proprietà è un bisogno naturale dell’uomo, che il suo riconoscimento è sempre stato una forma di progresso storico, se non la fondamentale ragione del primato dell’Occidente.

Sostenere che la proprietà sia un’inclinazione umana naturale, assimilabile al sonno e la veglia, è una posizione evidentemente estrema e a ciò sono sufficienti le testimonianze dell’antropologia. È, infatti, la limpidezza delle innumerevoli esperienze collettive di Inuit, aborigeni australiani o comunismi primitivi d’ogni sorta ad esibire come forme di organizzazione sociale possano strutturarsi e conservarsi con successo indipendentemente da qualsiasi concepimento della nozione di proprietà. In ogni caso, per esaminare l’ampiezza delle tesi a fondamento del riconoscimento, dell’esercizio e della tutela del presuntuoso diritto all’egoismo è necessaria un’analisi più estesa, che convoca ancora una volta la collocazione particolare della concezione liberale.

Secondo tale pensiero, la proprietà privata non è un diritto qualsiasi, ma il diritto per eccellenza a cui, come Coase ed il suo teorema insegnano, ogni altra forma di diritto, anche il corpo e la vita stessi, sono idealmente riconducibili. Essa sarebbe l’autentico luogo edonistico dei soggetti, che, limitando l’accessibilità e benedicendo l’autoreferenzialità, possono esercitare incondizionatamente il vezzo dell’autodeterminazione.

D’altra parte, se il fabbisogno collettivo non potrà mai essere ricoperto totalmente dalla limitata disposizione dei beni economici, scarsi per definizione, lo scenario in assenza di diritti di proprietà sarebbe quello del trionfo della conflittualità, delle inesauste interferenze violente.

A tal proposito emerge il punto davvero qualificante della proprietà, ovvero la sua capacità di correlare proporzionalmente il rendimento pubblico e privato, l’investimento ed il suo ricavo. È solo questa stretta relazione ad incentivare la produzione, perché qualora i beni prodotti fossero comuni od alterati da cause esterne, si dice, nessuno avrebbe ragione di impegnarsi oltre la stretta sussistenza. Il calo di produttività nelle campagne dell’Urss è l’esempio ortodossamente fornito.

Le cause esterne rappresentano, infatti, la nemesi infausta della proprietà. Esse vengono generalmente definite esternalità, ovvero l’influenza di effetti preterintenzionali o sconosciuti su qualsiasi attività privata. Ad esempio, la deviazione di un corso d’acqua deleterio da parte di un agricoltore potrebbe inondare un campo adiacente, oppure irrigarlo e farlo prosperare.
Le esternalità possono essere positive o negative, ma l’orizzonte liberale di efficienza economica perfetta tende ad una loro totale internalizzazione, ovvero l’assegnazione globale di diritti di proprietà corrispondenti a somme monetarie, in un contesto ideale di assenza di costi di transazione.

Le coordinate finora descritte forniscono un’interpretazione genealogica dei processi che spingono all’assegnazione e tutela dei diritti di proprietà, ma non sono in sé sufficienti, né questo è il loro fine, a giustificarla in senso latamente morale, né a descriverne effettivamente le possibilità di esercizio. A questo punto è necessario un confronto con le tesi relative ai punti appena sollevati. Modernamente, le giustificazioni generalmente adottate per legittimare la proprietà sono: la cessione, il possesso, il merito, la durata ed il contributo.

Il primo nucleo teorico è evidentemente il più debole, giacché sostenere che un bene appartenga a qualcuno perché qualcun altro, a cui eventualmente è possibile risalire, glielo ha ceduto non è che una petitio principii, una regressione sulla richiesta di legittimità al suo precedente proprietario, palesemente inadeguata a giustificare la proprietà in quanto tale. Nemmeno il possesso sembra affermarsi come legittimazione definitiva, in quanto esso non è altro che un indizio provvisorio di proprietà, che non implica in alcun caso un diritto; d’altra parte, anche un ladro è in possesso di un bene rubato.

In terzo luogo, che qualcosa sia di qualcuno di diritto perché se l’è meritato può solo porci di fronte al silenzio della domanda socratica nello stabilire cosa sia il merito, oltre a chi possa stabilirlo ed in che modo. Per quanto mi riguarda, ogni centesimo di Woody Allen è totalmente meritato, ma non credo che tutti sarebbero così indulgenti con il regista newyorkese. Il merito è un fattore culturale che può certamente portare al riconoscimento di una proprietà, ma di certo non è in grado di sancirla; in caso di incontro intraculturale, infatti, questa cedevole ragione soccombe alla crudezza contrattuale della violenza.

Il tempo ed il contributo personale, infine, sono le giustificazioni più interessanti, quandunque ancora insufficienti. Il fatto che un falegname mescoli qualcosa di sé nel costruire Pinocchio non significa che il legno necessario alla realizzazione fosse suo, e, d’altra parte, in una società della divisione del lavoro la maggior parte dei beni non sono stati affatto prodotti dai loro detentori. L’unica cosa che, eventualmente, può esser generata senza beni esterni è la propria prole, sulla quale credo nessuno voglia rivendicare seri diritti di proprietà privata. Ma anche la pigra ereditarietà secolare di un parco di una famiglia nobile sembra non essere l’ultima parola di fronte ad una espropriante sollevazione collettiva che ne rivendichi il libero ingresso. Dopo aver sommariamente liquidato le ragioni morali a fondamento della proprietà, ci accingiamo ad abbozzare, infine, l’effettiva assolutezza del suo esercizio.

È evidente che beni modesti, ottenuti in qualsivoglia maniera legale, possano subire l’incondizionato uso del proprietario; infatti sono libero di stracciare il mio segnalibro, schiacciare le mie ciliege od incendiare la mia chitarra, benché qualcun altro potrebbe redarguire, non a torto, che avrei semplicemente potuto dare tutto ciò a qualcun altro che ne avesse dimostrato interesse o bisogno.

Se si trattasse, però, del mio appartamento, la situazione cambierebbe sensibilmente, giacché per inquinamento acustico, emissione di odori mefitici o danni estetici al condominio potrei essere rimproverato o, per alcuni di questi, anche sanzionato. Per non parlare dell’improbabile eventualità in cui qualcuno acquistasse o fosse già in possesso di un parco nazionale, una villa palladiana od una tela di Courbet; in questi casi, egli non avrebbe alcun diritto a deteriorare il bene di cui fosse in possesso, ma solo di fruirne conservandolo.
Abbiamo passato in rassegna la genealogia del diritto di proprietà, le ragioni volte a giustificarla moralmente e le condizioni effettive del suo esercizio, ma da tutto ciò sembra non essere emerso alcun punto incontrovertibilmente legittimo o definitivo. Ci avviciniamo, dunque, al termine dell’analisi enucleando alcune conclusioni.

In primo luogo possiamo ricavare che le esternalità della proprietà privata sono inevitabili e non possono essere in buona parte internalizzate: la semplice detenzione di un bene ha la deterministica conseguenza di negarne per principio l’accesso al prossimo e non considerare questa come un’esternalità dannosa sarebbe gretta disonestà; inoltre, le conseguenze preterintenzionali della fruizione di un bene potrebbero avere cause multifattoriali, manifestarsi cumulativamente dopo molto tempo (si pensi all’erosione dell’ozono), essere difficilmente valutabili in termini economici (come i danni estetici all’ambiente) o, ancora, non essere gestibili dal proprietario o dall’uomo.

In secondo luogo enunciamo come la proprietà, il cui senso è esclusivamente quello di ridurre il conflitto per l’accesso a determinati beni, non deriva da ciò alcun fondamento sacrale, tanto più quando è il suo stesso riconoscimento ad esacerbare la conflittualità. La proprietà, infatti, si produce in nuce a pratiche consuetudinarie, la cui stabilità dev’essere conservata affinché essa sia approssimativamente riconoscibile come giusta e non minacciata. Solo l’autentica manifestazione di interesse, di dedizione ed attribuzione soggettiva di valore, come di un giardiniere per il proprio giardino di rose, certamente non rispecchiate nella valutazione economica, possono essere giustificazioni legittime al riconoscimento di una proprietà, ma questo riconoscimento è in ogni caso interno ad una conduzione collettiva, la cui inerzia potrebbe essere spezzata senza soluzioni di continuità.

In terzo ed ultimo luogo, nemmeno il possesso di un bene riconosciuto come privato può mai davvero dirsi assoluto e ciò perché la proprietà è solo un’accidentalità nella sussistenza indipendente di un bene, la cui esistenza attraversa le generazioni ed il tempo e nessun soggetto accidentale ha il diritto assoluto di logorare od annichilire un bene che, in quanto tale, è sempre in qualche misura patrimonio dell’umanità.

Torniamo così al nostro punto di partenza, ovvero alle parole eternamente stigmatizzate di Marx. Ciò che il filosofo di Treviri avrebbe voluto abolire non è la proprietà come ingenua vocazione del palmo di una mano, ma la proprietà borghese cui siamo ingenuamente indottrinati, una proprietà il cui esercizio è sempre esclusivo e la cui sacralità è derivata dalla ridicola insignificanza di un gesto dalla durata di qualche secondo del mondo, la durata dello sputo dell’Occidente.

Perché l’uomo mostra come le sfumature della proprietà possano essere infinite, differenziatamente accessibili ed inclusive, come nella “società dove il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti”. Ricordiamo di dimenticare la grottesca disumanità di questo residuo storico, per accostare, fino a farli coincidere, i beni alle parole, il cui nomade percorso disselcia il sentiero alla comune libertà.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21