L’orizzonte dello sguardo economico deforma e rinnova ciò da cui non può prescindere: il supporto scritturale della moneta. Questa magnetica catena che avvizzisce le mani a cui dona l’incontro è anche il generatore simbolico dei valori che, su larga scala, siamo odiernamente in grado di concepire e reciprocamente comunicare. Quella che segue è una sommaria genealogia del parto della moneta e la sua emancipazione come eccellenza descrittiva, secondo disparati riferimenti alle teorie liberali.
Il denaro è un’istituzione sociale e, in quanto tale, non può risolversi nel puro esercizio individuale. Dalla goffaggine commerciale di un regime di baratto, la moneta tende a nascere come facilitazione dell’incontro fra la domanda e l’offerta. Infatti, se nel baratto uno scambio poteva avvenire solo nella reciproca compensazione di esigenze e proposte (ad esempio, un allevatore che avesse bisogno di pelli ed offrisse pecore dovrebbe incontrare necessariamente un transattore che necessiti pecore ed offra pelli), l’emersione di un medio di scambio diffusamente condiviso aumenta la capillarità e la frequenza della possibilità di compiere scambi.
In una condizione pre-monetaria, in ogni caso, ciò che veniva venduto negli spazi d’incontro pubblico erano tendenzialmente delle eccedenze, e non dei beni prodotti appositamente per lo scambio. Infatti, in assenza di una diffusa divisione del lavoro, ciascuno era in grado di garantirsi la propria sussistenza e il mercato, lontano dall’odierna idea di concorrenza ed arricchimento, era solo un modo per utilizzare eccessi altrimenti sprecati.
All’interno di uno scambio generalizzato, la lenta genesi della moneta deriva dalla constatazione che alcuni beni sono più commerciabili di altri, ovvero più facilmente accettati. Prima della ben più moderna introduzione del conio, infatti, alcuni beni si differenziano come medi di scambio preferibili, come il sale, le spezie, alcuni metalli. In questo modo, quando l’allevatore offrente pecore si reca al mercato, anche non incontrando nessun esattore di pecore, può scambiarle per alcuni oggetti che sa di poter commerciare nuovamente in futuro.
La commerciabilità di un bene consegue da alcune caratteristiche generali, come la preziosità, la trasportabilità, la non deteriorabilità e la divisibilità. La preziosità è un carattere affine alla stima di valore, dunque sempre circostanzialmente desunto, ed è legato alla trasportabilità come possibilità di concentrare il valore in quantità agevoli (un diamante, capi di bestiame semoventi). La non deteriorabilità consente la conservazione del valore nel supporto e, di conseguenza, la possibilità del suo uso prolungato come medio di scambio – per questo, anche oggi, le banconote vengono periodicamente stampate con maggiore resistenza. La divisibilità, infine, permette di suddividere in sottounità il medio di scambio ed adattarlo, così, alle circostanze più varie (una mucca non consente di acquistare qualche carota, perché il suo alto valore non divisibile consente solo scambi con beni di valore comparabile).
Da queste proprietà ne discendono altre, pertinenti questa volta alla funzione del denaro. Esso diviene riserva di valore, in quanto, nella conservazione di valore e di accettabilità, potrà essere accumulato e riutilizzato anche in futuro per scambi ancora indefiniti. Se il medio è divisibile, può diventare unità di misura, ovvero consentire la comparabilità dei beni in termini quantitativi comuni (la pecora si scambia per due chili di grano e la mucca per sei chili, allora la mucca vale tre pecore). Nel divenire unità di misura, il medio consente di quantificare i beni e le transazioni divenendo, così, unità di conto (anche in assenza di scambi, si è in debito di tot. chili di grano) e standard per pagamenti differiti, cioè il medio è accettato per il pagamento di debiti, tasse, multe etc.
La nozione di beni di scambio considerata finora non è ancora all’altezza del denaro per il fatto che si trattava di beni pre-esistenti che, attraverso il commercio, hanno differenziato il proprio valore, ma conservano in ogni caso una propria utilità intrinseca. L’introduzione della moneta è volta ad essenzializzare il mezzo fino a renderlo eccellentemente fungibile e rispondente a tutte le proprietà sopra menzionate. Il denaro è davvero tale solo quando è intrinsecamente inutile, ma condivisamente (onni)potente.
Ciò fa comprendere in che senso la moneta sia strutturalmente un’istituzione sociale: essa conserva le qualità necessarie solo finché il riconoscimento condiviso e la fiducia gliele conferiscono, ma, qualora queste venissero meno, essa non sarebbe altro che un giocattolo indifferente al quale la storia degli uomini ha revocato il valore. I bambini che giocano con i marchi tedeschi nella crisi iperinflattiva degli anni Venti ne sono un’esemplare immagine.
Consapevoli di questa svalutazione sempre incombente, alcuni economisti contemporanei, in particolare quelli appartenenti alla scuola di Chicago, sono ostili a qualsiasi processo di inflazione o deflazione: lo spostamento del valore della moneta dalle condizioni di ricchezza reali di uno Stato, infatti, potrebbe essere una minaccia alla fiducia in essa riposta.
È proprio per far fronte alle fluttuazioni valoriali dell’oggetto-denaro che lo Stato si introduce nel processo naturale di generazione della moneta. Così come la consuetudine si rafforzerebbe nel divenir legge, il denaro acquisirebbe maggiore stabilità e credibilità nella sua assunzione responsabile da parte dello Stato, che opererebbe una funzione di controllo sul valore.
Di fatto, se così fosse, lo Stato non differirebbe affatto da un qualsiasi monopolio privato. Infatti, molti economisti dissentono da questa tesi sostenendo che fra zecche private (come quelle medievali) e statali non sussiste differenza alcuna, e, anzi, l’inserimento del monopolio in un quadro concorrenziale incentiverebbe a migliorare la qualità della propria moneta. In questo senso, la differenza fra conio privato e statale sarebbe semplicemente un nome conferito da un’attribuzione estemporanea ad un’agenzia che non ha interessi e struttura diverse da quelle che un qualsiasi privato mostrerebbe.
Il denaro, in ultima analisi, asseconderebbe gli interessi individuali del libero scambio e si imporrebbe spontaneamente nell’ordine sociale senza alcun accordo o sanzione preventivi. Anche lo Stato, sia nell’accezione pubblica che privata, sarebbe un frutto atipico del libero scambio, le cui inclinazioni vanno preservate quando rafforzanti la pratica monetaria ed ammansite quando si fanno carnivore.
Finalmente, se indossiamo le lenti liberali possiamo giungere alla conclusione che il denaro è un prodotto necessario. Non il caso o la circostanza hanno dato la linfa al decorso della pratica monetaria occidentale, ma qualsiasi inciampo nel varco della socialità prevede un perfezionamento delle prassi comunitarie fino all’emancipazione di un mezzo sublime analogo al denaro. D’altra parte, se i soggetti che s’incontrano sono homines œconomici, valutatori o strumentalizzatori, non esiteranno ad intrattenere rapporti di scambio ed ottimizzarli progressivamente.
Così, le doglie del concepimento di un oggetto mostruoso, che aliena l’immediatezza del reale attraverso una catalizzazione valoriale del senso, non vivono qui ed ora, ma per sempre e dovunque la la nocività di un passo umano sarà mossa. Se l’arte è la tensione all’evasione dal tempo, è il denaro la vera opera d’arte dell’uomo, l’animale costretto a riconoscere se stesso nell’eterno ritorno della propria opera sfigurante.