Poeta è colui che scrive una poesia o colui che potrebbe scriverla? Intuitivamente, la risposta propenderebbe per la prima soluzione: in assenza di un prodotto poetico, infatti, non si avrebbe alcun modo di riconoscere un poeta; d’altra parte, qualora sostenessimo il contrario, si giungerebbe al paradosso che tutti quanti sono poeti e semplicemente si limitano a non scrivere.
Quest’ambiguità tutt’altro che superficiale ha radici molto profonde nella cultura occidentale ed esercita una diffusa influenza inconscia su ogni nostro pensiero giudicante. La prima voce a tal proposito è quella di Aristotele, che organizza la questione in uno dei suoi più noti versanti teoretici: la distinzione fra potenza ed atto.
Ad esempio, un seme può diventare un albero, dunque esso è seme in atto ed albero in potenza; allo stesso modo, l’albero sarà albero in atto, ma sarà tavoli, clave e orologi a cucù in potenza. La potenza (dynamis) è, dunque, la forma che può diventar effettiva e l’atto (enérgheia) è ciò che è in se stesso reale. Tutto ciò che esiste è, agli occhi aristotelici, un trapassamento dalla potenza all’atto, che stanno reciprocamente “come l’esser desto al dormire”.
L’adozione di questa bipartizione ontologica era volta alla risoluzione del problema di Essere e Nulla. In particolare, se dal Nulla non si genera alcunché, è possibile sostenere che tutto ciò che si genera lo fa in quanto poteva essere generato, ovvero l’Essere era un suo modo potenziale. Con questa mossa Aristotele spiana la strada all’occhio scientifico sulla realtà, che interpreta ogni oggetto od evento come una conseguenza di cause, oltre ad essere essi stessi cause di alcunché.
Secondo questa attitudine, è immediatamente evidente il primato dell’atto sulla potenza: innanzitutto, se qualcosa passa dalla potenza all’atto è per mezzo dell’intervento di qualcos’altro di attuale, come le mani di un artigiano per produrre il tavolo dall’albero; in secondo luogo, e di ben maggiore rilevanza teorica, la potenza è desumibile solo a partire dall’atto, ovvero noi possiamo dire che il seme è un albero in potenza solo in quanto concepiamo e conosciamo gli alberi attuali. Da ciò emerge, quindi, una forte tensione finalistica, ovvero una lettura di enti od eventi a partire dalla loro attualità.
Questa breve sintesi sembra avvalorare definitivamente l’intuitività della tesi iniziale: la poesia è l’atto del poeta che l’aveva in potenza ed egli stesso diviene poeta nel momento in cui le dà forma. La spontaneità di questa inclinazione, che definisce un soggetto dal suo prodotto e le cause dalle conseguenze, testimonia come essa abbia germogliato indelebilmente nel nostro pensiero persuasosi ingenuamente dell’esattezza dei propri giudizi a posteriori.
E così degli intellettuali si chiede “ma cos’ha fatto di concreto?”, come alla presunta età della consapevolezza si tira il bilancio della propria vita; gli allievi sono diligenti quando riscontrano ottimi risultati, la meritocrazia di mercato si concretizza nella vendita, il momento in cui si conferisce realmente il prezzo al bene riconoscendolo, e curricula ed assunzioni lavorative sono tribunali del valore confluito nei risultati che si riescono a rievocare.
Ciò vale esemplarmente per il finalismo camaleontico di scienza e tecnica applicate: l’energia atomica è una grande risorsa, ma in potenza è anche un’arma; le patologie si definiscono a partire dai sintomi e le telecomunicazioni sono un’eclatante possibilità di rifocillare i rapporti, ma sono anche i baluardi del marketing, le mine della dipendenza e dei disturbi emotivi, dello stalking e dell’estinzione ultima della privacy.
Quest’incoerente rassegna delle inconsapevoli ossessioni definitorie dovrebbe destare qualche diffidenza rispetto alla purezza della riflessione aristotelica. Abbiamo assistito, infatti, a come ad una distinzione manichea si opponga sempre l’imprevedibilità di prassi che rivelano, ridefiniscono e negano l’identità e l’univocità di oggetti e soggetti, la cui comprensione è sempre inadeguata.
Sostanzialmente, quel che Aristotele trascura è che la potenza può essere anche potenza-di-non e che non esiste alcuna purezza nell’atto, perché si tratta sempre solo di un atto. Questo lieve dissesto ridefinisce totalmente il ruolo dell’atto, che finisce col non dire assolutamente nulla di esaustivo sulla natura di ciò che l’ha causato. Non potremo più dire, allora, che il tavolo rispetto all’albero è “come l’esser desto al dormire”, ma che è, semmai, come un battito di ciglia in una vita, e questo, con tutta evidenza, non ci consente affatto di definire la vita come lo spazio del battito delle ciglia. Non credo Aristotele avrebbe mai detto che l’albero è Pinocchio in potenza.
In questa nuova luce, possiamo riconoscere senza remore che nulla è ciò che è, perché ogni possibile definizione non esaurirà mai alcunché di ciò a cui si riferisce e, anzi, non avrà alcun potere se non quello di indicare. Ogni cosa è sempre ineditamente sé-nella-circostanza, per questo non possiamo circoscrivere l’orizzonte del pensiero alla nostra miserrima esperienza della possibilità delle cose. Perché un cacciavite può essere un cotton fioc doloroso, un’arpa uno strumento od un’arma, ed il bicchiere è un copricapo, una sedia un’opera d’arte e la pioggia una lacrima di Dio. Ma, per chi lo volesse, anche l’urina.
L’opera, insomma, si staglia rumorosamente sul silenzio senza dire alcunché di se stessa. Queste mie parole sono tutto e nulla e, pertanto, non hanno senso alcuno, perché potranno significare qualcosa in un lettore, tutt’altro nella mente altrui ed altro ancora nella mia mano. Nessuna genesi di pensiero può essere quella giusta, perché il senso non ha un’esattezza, e, soprattutto, nessun significato potrà mai esaurire il potere della parola.
Un’inversione di tendenza rispetto a quest’assillo calcolatore ed obiettivante diverrebbe l’inoperosità, ovvero la separazione di ogni opera dall’esaurimento del suo significato, del suo autore e del tempo che l’ha vista germogliare.
Dovremmo, dunque, eradicare l’inesausta pretesa di un discorso sull’attualità, perché l’invisibile non è mai anacronistico, ed è, anzi, la verità implicita della realtà. Ed estinguere altresì cliché come “ce l’ha fatta perché si è impegnato”, “si vede che ha passione perché ci si dedica”, ritenere che chi tace non abbia semplicemente nulla da dire, che il tempo sia denaro perché è l’alveo delle nostre opere, che il successo sia la stima del valore, che gli alberi abbiano un numero finito di prodotti potenziali o, ancora, che una corda serva per legare, perché, per quanto ne so, ci sono corde nelle tele di Picasso o al collo di innumerevoli esistenze sensibili.
Potremmo assistere alla vita di uomini fino alla morte, ed ignorare che questi, pur senza averne mai mostrato i segni, fossero masochisti, appassionati astrologi, calvinisti, ermeneuti, omicidi, che avessero la fobia dell’echidna, che, fortunatamente, non hanno mai incontrato.
Una poesia, insomma, non ci dice affatto che colui che l’ha scritta sia un poeta, e forse i migliori poeti del mondo non hanno mai scritto nulla. Così il vuoto non è mai davvero tale, ed il miracolo è quell’epifania potenziale in cui non s’aveva creduto. Mi chiedo quale lieto idillio diventerebbe il mondo se non si temesse di attendere la poesia dell’umanità anziché pretenderne il tatto, godendo fuori dal tempo nel palmo di un indugio. Perché tutto ciò che rende la vita degna d’esser vissuta è un’eterna latenza ed il senso come la gioia non possono esistere, se non nell’inappartenenza.