Rostagno ucciso perché faceva il giornalista

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Lo hanno ucciso, in quel  lontano 26 settembre  1988, perché non voleva stare zitto, perché faceva il giornalista, raccontando fatti ed aneddoti, ma sempre legati alla realtà di quella provincia di Trapani, da sempre provincia  di silenzi e di grandi affari mafiosi. E  Mauro Rostagno fu ucciso dalla mafia, per  i propri affari che dovevano restare ben coperti e perché fungeva da braccio armato di interessi che a Trapani intrecciavano traffici di droga, armi, appalti pubblici con investimenti in finanziarie e società dove la massoneria e la mafia coincidevano, sotto l’ombra di servizi segreti che tutto sapevano e tutto permettevano; forse organizzavano. La condanna all’ergastolo del boss Vincenzo Virga e dell’esecutore Vito Mazzara, hanno anche questo significato: ed anche per questo ci sono voluti  26 anni per arrivare alla prima sentenza su quell’omicidio, dopo incredibili depistaggi, quelle che il Pubblico Ministero ha definito “sottovalutazioni inspiegabili, omissioni, miopie…pregiudizi di chi indagò sull’assassinio”. E con la condanna ai due ergastoli ai boss mafiosi, la Corte d’Assise di Trapani ha riconosciuto come valide le argomentazioni del PM Gaetano Paci: Rostagno  fu ucciso per il suo «esemplare lavoro giornalistico» che aveva tanto infastidito la mafia. Passato attraverso l’esperienza della contestazione, Mauro Rostagno  negli anni Ottanta era approdato a Trapani dove aveva fondato la Saman con  Francesco Cardella. Ma in Sicilia aveva allargato l’orizzonte del suo impegno diventando una voce scomoda dell’informazione. Al punto che con i suoi interventi dagli schermi di Rtc di Trapani il giornalista-sociologo era diventato una «camurria» (rompiscatole). Così lo aveva apostrofato Francesco Messina Denaro, padre del superlatitante Matteo. Rostagno seguiva le tracce dei traffici di droga, dei legami tra mafia e massoneria deviata, del malaffare nella pubblica amministrazione. Con i suoi servizi, ha sottolineato l’altro pm Francesco Del Bene, aveva «svelato il volto nuovo della mafia a Trapani»: il passaggio da organizzazione tradizionale a struttura moderna e dinamica, gli intrecci con i poteri occulti, le nuove alleanze, il controllo del grande giro degli appalti. Mafia, dunque, «ma non solo mafia» ha puntualizzato l’accusa che ha puntato il dito, nella requisitoria conclusa con la richiesta di ergastolo per i due imputati, sulle omissioni investigative equiparate a veri e propri depistaggi culminati con l’arresto della compagna di Rostagno, Chicca Roveri.

In Appello sarà ancora battaglia processuale. Perché questa impostazione fa giustizia di anni di depistaggi, ma mette in chiaro gli intrecci perversi che facevano di Trapani la “piazza”mafiosa del potere economico di cosa nostra, ma che per questo non sono certo diminuiti negli anni. Anzi.

Fare giornalismo a Trapani era ed è ancora oggi più difficile che altrove: non è solo questione di coraggio (che con l’assassinio di Rostagno si voleva colpire). Ma di fonti, di omertà e complicità  che hanno attraversato le istituzioni, che hanno creato quel clima melmoso dal quale lo stesso Rostagno stava uscendo proprio con le denunce pubbliche, televisive, mirate. Ma che in seguito si rivelarono anche vicine alla stessa  comunità Saman di Trapani. Perché   nel 2012 un’inchiesta dei giornalisti Andrea Palladino e Luciano Scalettari per il Fatto Quotidiano  sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ha mostrato dei documenti inediti inviati dal Sios di La Spezia (il comando del servizio segreto della Marina Militare) a Balad in Somalia, il 14 marzo del ’94, il giorno in cui Ilaria e Miran erano appena arrivati a Bosaso: “Causa presenze anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, nda) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog. Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento” . I 2 colleghi giornalisti hanno riconosciuto in questo “Jupiter” Giuseppe Cammisa, braccio destro di Francesco Cardella, il “guru” della comunità Saman,   proprio quella  di Mauro Rostagno. Questo Cammisa ,che lavorava per i Servi Segreti italiani, cosa sapeva dei traffici di armi e/o rifiuti tossici tra Somalia e Italia, magari via Trapani? Ed a chi riferiva, eventualmente, questo signor   Cammisa i suoi rapporti segreti?  E riferiva anche del lavoro giornalistico di Mauro Rostagno? Altri interrogativi aperti, cui bisognerà dare risposta.

Un fatto è però certo: sull’assassinio di Rostagno per lungo tempo non si è voluta far chiarezza: solo nel corso del dibattimento è stata ordinata una perizia sulle tracce di Dna nel fucile impugnato dal killer, spezzato dalle esplosioni. L’accertamento scientifico ha stabilito una compatibilità con le tracce genetiche di Mazzara, già campione di tiro a volo, e di un suo parente biologico non identificato. Sarebbe questa la prova che incastra il boss già condannato all’ergastolo come autore dell’agguato in cui venne ucciso il 23 dicembre 1995 l’agente penitenziario Giuseppe Montalto mentre era in auto con la moglie, rimasta illesa. L’accusa ha trovato molte analogie tra i due delitti. Quella sera del 26 settembre 1988 Rostagno, lasciata la redazione di Rtc, stava tornando in comunità. Al suo fianco sull’auto c’era la segretaria Monica Serra. La zona di Lenzi ,dove fu ucciso, era al buio per un inspiegabile guasto alla centrale elettrica. Dopo la prima fucilata Rostagno ebbe la forza, quando era stato già colpito alla spalla, di spingere la ragazza sotto il sedile. Poi fu finito a colpi di pistola. Il racconto della teste Monica Serra, morta otto mesi fa per cause naturali, è stato uno dei punti di forza dell’accusa. Ma i difensori hanno messo in discussione quella ricostruzione ipotizzando addirittura che Monica Serra non fosse in auto al momento dell’agguato. Per loro l’unica vera pista resta quella che porta alle storie interne alla comunità Saman.

Dopo oltre 25 anni i giudici hanno scritto una verità diversa: Rostagno morì perché aveva svelato il profilo della nuova mafia. E perché lo fece con un lavoro giornalistico, raccogliendo indizi, svelando  nomi e cognomi, raccontando quello che vedeva e che veniva a sapere. Con  veri e propri editoriali giornalistici che ancora oggi sono di grande forza ed attualità. Per i contenuti, ma anche per il metodo giornalistico che no lasciava  nulla al caso o ai “voli pindarici”, ma restava ancorato a fatti reali. Quelli che potevano diventare “notizia criminis” per chi voleva o doveva investigare. Ma  che invece guardò da un’altra parte.  Prima e dopo la sua morte,per tanti anni.

Ora un primo passo verso la giustizia è stato fatto. LA strada è ancora lunga, fino alla Cassazione.  Ma quel punto fermo resta. Così come l’insegnamento di Mauro Rostagno. Per tutti, ma soprattutto per noi giornalisti, fedeli all’Articolo 21 della Costituzione.


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