“Uomini nudi” – di Alicia Giménez-Bartlett

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“Non so quale parte del mio corpo stia godendo, sento come un fiume di lava calda che mi fugge tra le gambe. Non riesco a fermarmi, non voglio fermarmi. Dimentico chi sono. Ho davanti a me un mostro possente, armato di mille armi. E’ impossibile resistergli. Sono venuta così tante volte che mi sento come uno straccio bagnato, non riesco neppure a muovermi. Non sento alcun rumore, non apro gli occhi. Rimango rannicchiata come un feto. Forse mi addormento, non lo so.”

Irene è una giovane donna di quaranta anni; una vita agiata, figlia unica di un padre vedovo che si è dedicato soltanto a lei e al lavoro, e lei inevitabilmente a lui, per riconoscenza, per dovere, per amore; il padre è l’uomo ideale, la fabbrica che ha fondato passerà a lei quale degna erede: “Papà mi ha tirato su come un ragazzo. Ero io il suo primogenito in fondo”. Il marito David, sposato secondo un ideale di famigliola perfetta voluta dal padre, è un avvocato in carriera forse utile all’azienda ma non a lei, non hanno figli e quando il padre muore anche il loro rapporto va in pezzi. Lui “scappa con una donna più giovane”, lei prende sulle spalle il carico dell’impresa, un peso che la crisi economica rende pressoché insostenibile. Irene è una donna bella, “un corpo tornito e perfetto come una statuina di marmo”, ma è sola, congelata al suo interno, infelice, anaffettiva, spigolosa nei rapporti personali, e con una generica fame di vita non vissuta, nonostante i soldi e i privilegi.

Il preambolo è opportuno per inquadrare la vicenda di un romanzo avvincente di cui Irene non è la protagonista, ma lo diventa tragicamente sulla spinta degli eventi; una figura che perdura a lungo, con tenacia, nella memoria del lettore, quale simbolo e vittima dei nostri tempi. Il titolo del romanzo è Uomini Nudi, di Alicia Giménez-Bartlett, uscito presso Sellerio dove l’autrice è ben nota per altri titoli, multi decorata nei suoi sessantasei anni, con riconoscimenti internazionali dal Grinzane Cavour  al Premio Planeta.

Pur narrando una vicenda sorprendente e originale, il fascino vero del romanzo risiede nella struttura e nel linguaggio. La storia si sviluppa attraverso i monologhi interiori dei cinque personaggi principali; una catena di episodi rivissuti nella mente di ognuno di loro che si fondono in una narrazione senza soluzione di continuità, a volte senza nessuno stacco tra l’uno e l’altro; un amalgama di trama e commento in cui i protagonisti rivelano soprattutto il loro retropensiero, ciò che non può essere detto apertamente. E’ un gioco di specchi dentro la galleria dell’animo umano, una rappresentazione del quotidiano attraverso un linguaggio spigliato, agile, veloce, per nulla artificioso, perfettamente affine alla vita che conduciamo  e al nostro modo di parlare; uno stile che evoca la spregiudicatezza di maniera delle riviste femminili, ma è molto più alto nel tono, possiede un registro letterario sorvegliatissimo, mai corrivo, mai banale, di cui soltanto un grande talento sa essere capace. Il romanzo piacerà morbosamente alle donne, perché le riguarda da vicino, ma riesce a catturare visceralmente gli uomini i quali si troveranno messi spietatamente a nudo, non solo per metafora, con tutti i gioielli esposti all’aria e al centro dell’azione dalla prima all’ultima pagina.

Il luogo è la Spagna, Madrid, ma potrebbe essere benissimo Roma, Milano, Parigi, Londra, Atene, dove la crisi economica si è accanita di più, destrutturando un consolidato modello di esistenza che andava avanti da decenni senza scosse, e nessuno avrebbe mai sospettato che potesse cambiare tanto in fretta e così disastrosamente. Javier è un insegnante di lettere, precario, in un liceo di suore. Non ha l’abilitazione a una cattedra ma tiene corsi di lettura alle allieve e ciò gli basta, svolgendo un mestiere che gli piace con il beneficio di molto tempo libero per i suoi interessi culturali. Lo stipendio è modesto, ma unito a quello della moglie Sandra con una posizione più solida, assicura una vita dignitosa; entrambi oltre la trentina, senza figli, il solito giro di amici, le uscite serali, i film, le letture, le immancabili vacanze. Poi da un giorno all’altro Javier, a causa del taglio delle spese, viene licenziato e si ritrova a spasso senza un orizzonte professionale. I tentativi di trovare un’altra occupazione vanno regolarmente a vuoto, le giornate diventano lunghe e frustranti, il rapporto con la moglie che lo vede inattivo e rassegnato, si logora di ora in ora. Finiscono per allontanarsi, per non trovarsi più, e fatalmente per separarsi. Come succede oggi, ingoiando l’angoscia: “Hai due giorni per fare le valige e andartene”, dice Sandra proprietaria della casa.

Javier al funerale di una anziana signora amica di famiglia, conosce il nipote Ivan, suo coetaneo, un tamarro simpatico, tirato su dalla nonna che si era sostituita amorevolmente ai genitori balordi, un padre morto presto, una madre alla deriva. Ivan è un ragazzo cresciuto in strada, ignorante ma intelligente, capace di muoversi con abilità nella giungla urbana. E sarà lui a tendergli una mano, vedendolo alla disperazione. Poiché Javier ha un bell’aspetto, alto, magro, non troppo muscoloso ma elegante, gli propone l’improponibile: unirsi a lui in uno spettacolo di uomini che si spogliano sul palco a pagamento per le orde di donne assatanate che infilano banconote dentro il perizoma. Si tratta di muovere il culo e mostrare il pacco sotto le luci, cercando di andare a tempo con la musica. Solo tre giorni a settimana, venerdì, sabato e domenica, più le prove. Per una combinazione fortunata si è liberato un posto nella squadra, e Javier potrebbe subentrare se il boss, Mariano, è d’accordo. Il compenso non è eccelso ma gli servirà a tirare avanti e intanto guardarsi intorno. Un’offerta indecente per un professore di lettere abituato a cullarsi al riparo dei suoi classici. Javier rifiuta sdegnato, proprio non si vede nei panni di un marchettaro, però non avendo un posto dove andare accetta grato l’ospitalità di Ivan, che lo aiuta a traslocare libri e valige.

In cerca di un qualsiasi ruolo che lo riscatti dal vuoto in cui è precipitato, il professore finisce per sottoporsi al provino nella Sala Diamante, uno squallido garage che si trasforma in un rutilante luogo di perdizione nei giorni di spettacolo. Se la cava meglio del previsto e viene arruolato per un numero di gruppo: una classe di scolaretti con grembiule e fiocco, che al momento giusto zac!, strappano via il superfluo e spingono lo scrigno in  bella mostra, avanti e indietro, per stordire le baccanti infoiate, con “una fame arretrata che neanche in guerra”. Legnoso e alquanto teso, sorretto da un po’ di polvere bianca, Javier con la sua aria perbene fa colpo sulle  femmine strepitanti che accorrono agli spettacoli: “minigonne, top luccicanti, pantaloni aderentissimi e certi tacchi che quando camminano rischiano la vita”. Ivan, abbronzato, muscoloso, vestito da Zorro è già un divo da delirio. Ma la vera sorpresa è Mariano, il capo della ciurma, un uomo maturo, con una faccia da galeotto, il quale indossa una giacca di lustrini e svolge il ruolo di presentatore. E’ lui a chiudere lo show, esibendosi senza alcun pudore fino al nudo integrale, con una carica animalesca contagiosa, impressionante per la sua età. Irene che assiste allo spettacolo trascinata da Genoveva, un’amica del suo giro facoltoso, un po’ più agée e del tutto priva di scrupoli, non crede ai suoi occhi: “Il presentatore, quel mostro, con tutti i suoi anni e le sue trippe, è provocante, sensuale, non come gli altri che sono finti. Ci resto di sasso, ha un corpo  grande, pesante, che  mostra tutti i suoi anni e i suoi vizi, ma non riesco a staccare gli occhi da lui. Mi ripugna e insieme mi attrae. Il suo ballo è la sola cosa erotica che ho visto qui dentro. Anche le cafone che hanno passato tutta la sera a strillare rimangono in silenzio, e alla fine applaudono da far crollare la sala”.

Javier si manterrà con gli striptease: alla Sala Diamante, ma anche nelle feste private in cui viene coinvolto da Ivan in costume da gladiatore, “una trovata che spacca”. E attraverso travagliate resistenze finirà per arrotondare le entrate accettando anche incontri a pagamento: 300 euro a botta. In questa nuova attività da escort si incrocia con Irene, che ha imparato da Genoveva a pagare i ragazzi; ma senza andarci a letto, senza neppure farsi sfiorare; limitandosi a impartire ordini, da padrona, a farli spogliare, a guardarli senza una piega in viso, magari mentre si masturbano, umiliandoli, col cuore che batte all’impazzata ma gelida e impassibile all’esterno. Il gioco le prende la mano, molto più di quanto potesse immaginare: “Penseranno che sono una pervertita. Comincio a sospettarlo perfino io”. Neppure le sedute da uno psichiatra che detesta, ma al quale lascia “cifre astronomiche” alla fine di ogni seduta, servono a trattenerla sulla soglia; il terapeuta anzi la incoraggia: “Si lasci andare…”

Al contrario della sua amica Genoveva, rotta a tutto e pertanto protetta dalla sua stessa callosità, Irene si abbandona a un sesso mai sperimentato, imbozzolata per anni tra marito insipido e paparino virtuoso. Con Javier ha ceduto di schianto, istupidita: “Non è normale. Le sensazioni del sesso con lui mi rimangono addosso per ore. Mi sveglio a metà della notte pazza di desiderio. Ho paura. Forse sto sviluppando un’ossessione patologica”. Una diga che si spezza, il vaso di Pandora aperto da un’insana curiosità. Irene scopre la parte oscura di se stessa, il buio pulsionale che non concede scampo né tregua e si manifesta simile alla dipendenza da una droga, un bisogno compulsivo. Non il sesso creativo, felice, solare, ma quello torbido, distruttivo, autolesionista, che attrae verso un limite proibito oltre il quale l’essere si smarrisce e si annienta, travolto dal magma dell’energia primordiale. La storia si complica a un culmine tale che sarebbe una perfidia rovinare l’attesa anche soltanto con una parola di troppo. La prosa di Alicia Giménez-Bartlett è travolgente, merito senza dubbio anche di Maria Nicola, una traduttrice con una marcia in più. Si arriva alla fine molto scossi, con un buco nel cuore.


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