Serve un’Europa federale con istituzioni democratiche

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di Felice Mill Colorni

Nel suo viaggio in Cina lo scorso mese, il presidente Mattarella ha visitato Chongqing. Il nome della località dirà probabilmente poco alla grande maggioranza dei nostri concittadini sia italiani che europei, ma si tratta un’area urbana della Cina centromeridionale, in pieno sviluppo industriale e tecnologico, che ha oggi all’incirca trenta milioni di abitanti. Trenta milioni di abitanti corrispondono pressappoco alla metà della popolazione di alcune fra le vecchie “grandi potenze” europee, come la Gran Bretagna o la Francia (o di un’ex aspirante grande potenza come l’Italia); quasi al 40 per cento della Germania unificata; a circa tre quarti di paesi come la Spagna o la Polonia; e sono di più della popolazione totale di ciascuno degli altri paesi membri dell’Unione europea, nessuno escluso. E stiamo parlando di una sola grande città cinese, e nemmeno di una di quelle più note dalle nostre parti.

Davvero qualcuno può pensare che nel mondo globale, ancor oggi costituito per la maggior parte da regimi non democratici e non rispettosi dei diritti umani, o di dubbia o incerta democraticità, le vetuste e insigni nazioni storiche dell’Europa possano competere sul piano economico, o far valere quelli che dovrebbero essere i loro grandi principi di libertà e democrazia, di diritti umani e di rispetto del diritto, di fronte a giganti del genere?

Davvero qualcuno può pensare che un continente piuttosto povero di materie prime, e che vive essenzialmente importando materie prime e semilavorati ed esportando prodotti finiti e servizi, non finirebbe per essere un vassallo, se disunito, di paesi autoritari e capaci di dettar legge? Di paesi che, trattando sul piano meramente bilaterale – come vuole sempre fare la Russia di Putin nelle vendite di idrocarburi – finirebbero sempre per imporre patti leonini alle deboli controparti statali europee?

Gli europei, e soprattutto gli europei occidentali, hanno completamente perso il senso della storia. Si sono ormai abituati a vivere in pace fra loro e a considerare la pace e la stabilità istituzionale democratica come l’ordine naturale delle cose, anziché come faticose conquiste civili assicurate dalla sconfitta dei totalitarismi novecenteschi. Di fronte alle difficoltà e alle ristrettezze causate da una crisi economica che – in Italia più che altrove – sembra non voler mai finire, pensano quindi, come si sente spesso dire, che “peggio di così” non possa in nessun caso andare. Questa è la più irresponsabile e temeraria delle illusioni.

Come nobili decaduti, dopo avere dominato da soli per qualche secolo il resto del mondo, da circa un secolo gli europei si erano abituati a farlo, in forma assai attenuata, in condominio con un’America che da parente povera era diventata un po’ alla volta la titolare dell’impresa occidentale; da qualche decennio l’imprenditrice era anche diventata a poco a poco la badante dei vecchi e un po’ rimbambiti ex padroni del mondo europei che, con la vecchiaia, dimenticati i non pochi misfatti commessi in gioventù e nella maturità, amavano immaginarsi come la parte virtuosa del mondo, capace di impartire a tutti, badante compresa, lezioni di etica e di buona creanza. Con qualche difficoltà, si erano adattati a una convivenza cooperativa fra di loro, che non tutti apprezzavano in ugual misura, ma che consentiva loro di presentarsi talvolta in società come un unico e ancor rilevante soggetto della politica internazionale.

Negli ultimi mesi, la vecchissima e un po’ rimbambita Europa ha improvvisamente perso, con l’elezione di Trump, la badante americana che l’aveva protetta e talvolta un po’ maltrattata per settant’anni. Non c’è da stupirsi che anche la badante senta ormai la fatica fisica, psichica ed economica degli anni, e abbia deciso di tirare i remi in barca, e di ritirarsi in buon ordine al suo paese, di cui rimpiangeva da tempo, come talvolta fanno i vecchi, il buon tempo antico. Anche lei ormai perde colpi da tempo, e si è dimenticata che quando stava da sola se la passava peggio, molto peggio, che negli ultimi settant’anni. Si accorgerà presto che la memoria inganna. La vecchissima Europa spesso si lamentava che la badante talvolta si mostrasse padrona nella sua propria casa, una padrona che magari di solito era ben disposta e abbastanza indulgente, ma non proprio sempre benevola al massimo, e nei momenti di annebbiamento un po’ tirannica. D’altra parte la vecchissima Europa si dimenticava di pagarla per i suoi servizi neppure sempre espressamente richiesti ma puntualmente forniti, e, viziata da settant’anni di relativa tranquillità, ora non sembra proprio più capace di cavarsela da sé. E un’altra badante più benevola proprio non c’è.

Ultimamente la vegliarda sembra perfino tentata di farsi ricoverare in un ospizio-lager, freddissimo e dispotico, ma con un amministratore abilissimo a camuffarlo da premurosa oasi serena; e si sa che le persone molto anziane sono spesso facile preda dei truffatori. Infatti attorno a lei ne girano ormai tantissimi, tutti astuti, che si ingrassano impuniti e ammirati a sue spese. Del resto quell’amministratore dell’ospizio ormai non dispiace più tanto neppure alla ex badante, che per decenni aveva guardato con orrore a quel lager, e ora, persi gli ideali di gioventù, ci fa affari insieme, anche in flagrante conflitto d’interessi. Subito fuori casa imperversano bande di giovanotti poco raccomandabili, un buon numero di veri delinquenti, e masse di disperati in fuga che bussano al portone; e, un po’ più lontano, un paio di giganti autoritari, maleducati e piuttosto maneschi, risvegliatisi dal letargo grazie a cure drastiche e potenti, e con una gran voglia di tornare protagonisti della storia del mondo. La vegliarda deve decidersi: o mette la testa a posto, si sottopone anche lei a cure drastiche di ingegneria genetica, ristruttura radicalmente la propria casa, mette da parte le nostalgie di gioventù (quando faceva sempre a botte in famiglia rimanendo alla fine un po’ storpiata), o finirà prima all’ospizio-lager del conte Vladimir e poi quel che ne resterà finirà per assumere i connotati che le assegnerà il più prepotente dei giganti risvegliatisi dal letargo.

Fuor di metafora, a sessant’anni dalla firma dei trattati di Roma l’Europa – ma, si può dire, al di là delle apparenze, l’intero Occidente Stati Uniti compresi – si trova di fronte a una sfida di quelle che lo storico inglese Arnold Toynbee riteneva ricorrenti per le grandi civiltà della storia: una sfida alla quale si è capaci di rispondere o della quale si perisce. Perché la storia non si ferma ad aspettare la resipiscenza collettiva dei vecchi europei.

Il nuovo populismo che – come novant’anni fa il fascismo – ha fatto le sue prove in Italia e investe ora tutto il resto del mondo occidentale in forme sempre più radicali, proprio come un tempo il fascismo sta oggi svuotando dall’interno i principi e i valori del costituzionalismo democratico. Le classi politiche statali, lungi dal comprendere (e dal tentare di far comprendere agli elettori) che solo la condivisione della sovranità può ancora garantire agli europei qualche margine di autodeterminazione democratica nel mondo globale, giocano quasi ovunque – in Gran Bretagna come in Italia – la carta dell’appeasement nei confronti del populismo, dell’antipolitica, dell’antiparlamentarismo, e spesso anche della xenofobia, di uno strisciante e sempre meno complessato razzismo, e di un vacuo e patetico sovranismo a base nazionalista. I capi dei partiti mainstream si credono molto astuti quando tentano di cavalcare la tigre populista, antiparlamentare ed antieuropea per tentare di vincere elezioni e referendum popolari. Anche perché in questo modo possono continuare a scaricare su una presunta volontà astratta, lontana e imperscrutabile dei «burocrati di Bruxelles» la responsabilità di scelte che sono in realtà, tutte o quasi tutte, scelte assunte all’unanimità e a porte chiuse nei vertici dei capi di Stato e di governo di un’Europa che non è democratica proprio perché è ancora, nelle scelte di fondo, intergovernativa, fondata cioè proprio su quella sovranità degli Stati membri a cui così tanti europei vorrebbero impiccare l’Europa e se stessi. Così facendo, quasi tutti i leader della politica in Europa spingono soltanto i veri e originari populisti xenofobi e antipolitici a radicalizzare ulteriormente le loro posizioni, per continuare a marcare le differenze. Il risultato è un sempre maggiore spostamento verso quelle posizioni del baricentro dei sistemi politici e del dibattito pubblico. Quel che appariva intollerabilmente razzista sei mesi prima, diventa spesso accettabile e contrattabile sei mesi dopo, in una spirale apparentemente senza fine. Verso nuove forme sempre più evidenti di totalitarismo, per ora – per ora – riservato soprattutto agli Untermenschen che chiedono disperatamente soccorso.

Sono pochi nell’Europa di oggi i politici che hanno il coraggio di contrapporsi frontalmente all’ondata xenofoba, antipolitica, antiparlamentare, comunitarista e autoritaria della nuova retorica «Blut und Boden», la rinata retorica pestifera e sinistra del sangue e del suolo, che si credeva definitivamente sconfitta settant’anni fa, almeno nell’Europa occidentale. Pochissimi quelli che sanno di dover dire ai loro elettori che in un mondo interdipendente la sovranità dei vecchi Stati nazionali è solo una patetica menzogna. E che l’interdipendenza, con tutti i mali e i danni che può comportare, è però la più efficace garanzia della pace (o almeno della pace fra le potenze maggiori, il che alla fine significa della pace nucleare nel mondo). Sono pochi e pochissimi, anche perché ormai le classi politiche, come quel che resta più in generale delle classi dirigenti (non solo politiche, ma anche sociali, culturali, economiche, sindacali, accademiche, mediatiche) sono per lo più anch’esse vittime di quella «barbarie dello specialismo» che il filosofo José Ortega y Gasset aveva profeticamente diagnosticato già nell’Europa del 1930, e che chiude le menti e gli orizzonti di chi nella sua formazione culturale non ha dovuto fare i conti a fondo con la Storia. Così, di conseguenza, la perdita del senso della storia non è solo degli elettori svantaggiati, ma anche di leadership smarrite.

Anche i leader non sono consapevoli, e sembrano davvero non sapere più, che le cose possono sempre andar peggio, anche quando si pensa, sulla base di un’esperienza di vita che non sa andare al di là di quel che si è direttamente sperimentato, che si sia toccato il fondo, e che quindi non ci sia più niente da perdere. Neppure affidandosi al più ciarlatano, che, dicono spesso gli elettori, «peggio di così non potrà comunque fare».

A sentire le interviste fatte all’“uomo della strada”, a leggere i sondaggi, a frequentare i social, ci sarebbe da disperare, tanto il veleno del populismo e della xenofobia, del razzismo e del nazionalismo, sembrano essere penetrati ormai nel profondo.

Poi, dopo una sfilza di sondaggi catastrofici e di aspettative al ribasso, arrivano le elezioni politiche olandesi. L’Olanda era stata, con la Francia, l’iniziatrice dell’ondata xenofoba, antieuropea e “sovranista”, quando aveva respinto, nel referendum del 2005, il progetto di Costituzione europea. Ora, smentendo i sondaggi, in Olanda, grazie a un’affluenza altissima determinata dall’importanza, finalmente compresa, della posta in gioco, hanno vinto tutti i partiti più europeisti, in tutto lo spettro del continuum destra/sinistra. Il partito nazionalista e xenofobo di Wilders ha subito una significativa battuta d’arresto, e, se il Vvd, il partito liberalconservatore e blandamente euroscettico del primo ministro uscente Rutte è rimasto il più votato, pur perdendo fortemente in voti e seggi, il maggiore successo rispetto alle elezioni precedenti è andato ai liberalprogressisti del D66 e al nuovo partito verde, cioè ai sostenitori più entusiasti dell’integrazione. E a votare esplicitamente contro il progetto europeo è stato soltanto un elettore olandese su sette.

Si è trattato del punto di svolta auspicato alla vigilia dal primo ministro Rutte, che aveva chiesto ai suoi concittadini di essere il primo paese a fermare l’ondata populista?

La risposta verrà essenzialmente dalle prossime elezioni presidenziali francesi. Le elezioni francesi sono quelle in cui la posta è la più alta fra tutte quelle in programma nei prossimi mesi. Una vittoria di Marine Le Pen non sarebbe soltanto una catastrofe per la civiltà e lo status della Francia, ma un colpo probabilmente irreparabile per tutti gli europei e per la stessa civiltà occidentale. Dopo l’elezione di Trump negli Stati Uniti, sarebbe il segno definitivo del suo tramonto e una condanna collettiva a un destino di irrilevanza degli europei nel mondo globale. Per ora i sondaggi suggeriscono però una probabile vittoria di Emmanuel Macron. Qualunque cosa si pensi delle posizioni politiche di Macron, una sua affermazione sarebbe davvero il segno di un’inversione di tendenza, trattandosi – e non soltanto in Francia – del candidato più deciso a rilanciare l’integrazione europea e il ruolo dell’Europa nel mondo globale. E probabilmente anche dell’esponente politico di vertice meno disposto ad accettare la subalternità e a competere con i populisti sul loro stesso terreno della demagogia antieuropea e autoritaria. Più dello screditato candidato gollista Fillon, e più dei candidati di una sinistra divisa e incerta, Macron sembra al momento in grado di convogliare al secondo turno tutta la Francia “repubblicana” contro la minaccia lepenista. Come fece a suo tempo Chirac, ma, ben più di Chirac, su posizioni scopertamente antinazionaliste.

Se questo dovesse accadere, e sia che in Germania vincano poi in settembre i socialdemocratici di Martin Schulz, o che sia confermata Angela Merkel, i due paesi senza i quali l’integrazione europea non esiste – e che non a caso sono i due paesi in cui ancora esistono classi dirigenti abbastanza coese – potrebbero forse essere spinti a una rinnovata iniziativa europea in senso finalmente federale da fattori esterni e interni: l’aggressività concentrica degli autocrati russo e turco, e la palese malevolenza dell’Amministrazione Trump, potrebbero costituire il corrispettivo di quella pressione esterna che già negli anni Cinquanta convinse i sei paesi fondatori a mettere da parte rivalità e nazionalismi.

E a farlo sulla base di una ritrovata centralità di quel che caratterizza il meglio che l’Europa ha prodotto negli ultimi due o tre secoli: non soltanto un’economia dinamica, ma soprattutto la democrazia parlamentare e costituzionale, la libertà e la dignità di ogni individuo, i diritti umani, il rule of law. Di fronte e contro l’ondata nazionalista e xenofoba, come all’inizio degli anni Cinquanta fu proprio la minaccia totalitaria esterna e interna a far superare le riserve nazionaliste.

Sono ancora pochi però, fuori dalla Francia dalla Germania e da pochi altri piccoli paesi, i leader politici e gli elettorati consapevoli dell’entità della minaccia nazionalista e xenofoba. Il rischio è che, come già accadde negli anni Trenta, di fronte alla minaccia i cittadini e le forze democratiche non vedano la necessità prioritaria di unirsi per sconfiggere la minaccia principale, privilegiando invece le divisioni interne, sulle linee delle contrapposizioni politiche che hanno caratterizzato i passati decenni di sostanziale normalità democratica novecentesca. Ma oggi non siamo in una situazione paragonabile a quella di cinquanta o quarant’anni fa: siamo, purtroppo, in una situazione paragonabile, semmai – e magari in forma attenuata, ma resa altrettanto grave dalle nuove tecnologie e dall’interdipendenza globale – in una situazione ormai paragonabile a quella degli anni Trenta. Non è tempo di vanagloriose vocazioni maggioritarie, di echi delle polemiche sul “socialfascismo”, di appeasement verso il nuovo razzismo, di irresponsabili delegittimazioni dei «ludi cartacei» del parlamentarismo o contro l’inutile «clase discutidora».

Solo un’Europa federale, dotata cioè di istituzioni direttamente e democraticamente legittimate anziché dall’opaca governance intergovernativa, potrà riacquistare la capacità di autodeterminazione necessaria anche a concorrere, se i suoi cittadini lo riterranno, a mettere in causa con efficacia determinate gli stessi paradigmi dell’attuale mondo globalizzato. Illudersi di poterlo fare all’interno dei nostri ormai piccoli paesi non è soltanto illusorio e patetico, ma è la strada dell’autoinganno, ed è la strada sicura per la rovina comune.

Da confronti


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