Pd, regista di un delitto imperfetto

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Romano Prodi ha fatto di tutto per evitare la scissione del Pd. L’inventore dell’Ulivo e del Partito democratico si diceva “angosciato” dal rischio di una frattura. Con telefonate, incontri e colloqui riservati ha cercato fino all’ultimo di salvare l’unità del partito. Alla fine era pessimista. A pochi giorni della scissione osservava sconfortato: «Nella patologia umana c’è anche il suicidio». Poi è arrivato il suicidio che, per alcuni, è un omicidio del grande partito riformista del centrosinistra. La scissione del Pd fa male, è una ferita sanguinante. Il Pd, amputato di una parte della sinistra interna, va giù nei sondaggi e il M5S decolla come primo partito italiano. Improvvisamente salta ogni argine e lo scontro da controllato diventa infuocato e fratricida, condito da accuse pesantissime e da insulti.

Si parla di omicidio del Pd e del regista del delitto. Scatta il rimpallo delle accuse. Con toni da film giallo parte la caccia alla mente della rottura, al regista. Matteo Renzi, ritornato dal viaggio nella California delle nuove tecnologie, indica l’artefice della scissione nell’ex segretario del Pds-Ds: «Abbiamo avuto l’impressione che fosse un disegno già scritto. Scritto, ideato e prodotto da Massimo D’Alema». Il segretario dimissionario del Pd, in corsa per essere confermato dal congresso alla guida del partito, mette nel mirino soprattutto l’uomo definito un tempo il Lider Maximo: «A D’Alema dico, non scappare, vieni, candidati, corri e vediamo chi ha più consensi e più voti».

D’Alema non viene lasciato solo dalla minoranza che, dopo il divorzio, ha dato vita al Movimento dei Democratici e Progressisti. Pier Luigi Bersani, uscito dal Pd assieme D’Alema, Roberto Speranza, Enrico Rossi, Vasco Errani e a un consistente gruppo di parlamentari, scende in campo per soccorrerlo. Ironizza sulla teoria del grande manovratore che veste i panni di D’Alema e rinvia l’imputazione al Rottamatore: «Renzi adesso ricerca il regista, ma non sia così umile: il regista è lui, ha fatto tutto lui, la disgregazione di questo partito ha un regista, e questo regista si chiama Renzi». L’ex segretario dei democratici spiega il perché della divisione: «Dopo averle provate tutte siamo usciti dal Pd. Perché, con Renzi, stiamo andando contro il muro, prima paese, poi partito, poi i destini individuali».

Tuttavia la caccia al regista della scissione era cominciata già da qualche tempo, già prima della frattura. D’Alema una settimana fa respingeva con toni accesi ogni accusa che arrivava dalla maggioranza renziana del partito: «È imbecille chi dice che sia io il regista della scissione del Partito democratico». Adesso attacca l’ex presidente del Consiglio e segretario dimissionario del Pd come un avversario da sconfiggere: «Per creare una grande forza di centrosinistra deve essere ridimensionato il ruolo del ‘rottamatore’, che ha rotto tutto, ha distrutto il Pd e lo ha svuotato di contenuti democratici, ne ha svilito ispirazione, ideale e politica».

Lo scambio di accuse è feroce, ma la rissa non si spiega solo con la veemenza tra ex compagni di partito che hanno scelto strade diverse, dopo un lungo ed infuocato scontro durato tre anni. I motivi sono tanti. In primo luogo c’è l’esigenza di non apparire i responsabili della divisione. Un’antica tradizione della sinistra di matrice marxista condanna senza appello una scissione perché rompe l’unità del partito, e un partito indebolito è subalterno della destra e delle forze anti operaie.

Ma lo scontro frontale si spiega anche su chi è la vera sinistra. C’è una visione differente della identità politica e delle scelte politiche: la minoranza ha ritenuto lesi i diritti dei lavoratori dal governo Renzi e chiede “una svolta radicale” verso sinistra in nome dell’uguaglianza, l’ex presidente del Consiglio e segretario dimissionario ha puntato le sue carte sulla modernizzazione della società come strumento per rendere vincente la sinistra e difendere proprio i lavoratori. Non solo. A giugno si voterà in alcune importanti città italiane per eleggere i nuovi sindaci e ognuno, preparando la campagna elettorale, cerca di marcare il proprio territorio e di conquistare i voti dei tanti sostenitori sfiduciati di centrosinistra. Democratici e Progressisti, grazie anche all’adesione di una parte dei parlamentari di Sel guidati da Arturo Scotto, ha dato vita a dei forti gruppi alla Camera (34 deputati) e a Palazzo Madama (14 senatori).

Lo scontro era arrivato al punto di rottura già con il referendum dello scorso 4 dicembre sulla riforma costituzionale del governo: Renzi votò sì; la minoranza votò no, in rotta di collisione con il suo premier-segretario, assieme a tutte le opposizioni. Il giovane “rottamatore” fu “rottamato” da una sonora sconfitta. Di qui prima le dimissioni da presidente del Consiglio e poi da segretario del Pd con il l’obiettivo di “ripartire” nella sfida per tornare alla guida del partito. Non sarà facile. È una partita difficile per lui e per le tante frammentate forze di sinistra. Saranno un bel problema soprattutto le elezioni politiche, sia che si tengano regolarmente all’inizio del 2018 sia che le urne si aprano prima. Bersani assicura il sostegno dei Democratici e Progressisti al governo presieduto da Paolo Gentiloni rimasto nel Pd e punta sulla formazione di “un nuovo centrosinistra”.

L’obiettivo, quindi è un’alleanza elettorale con il Pd e con le altre forze del centrosinistra. Rischia di essere un‘impresa acrobatica l’intesa con il partito al quale ha detto addio, soprattutto se Renzi, il grande avversario, vincerà il congresso e tornerà sul ponte di comando. Se c’è stato un regista nell’omicidio del Pd, ha organizzato un delitto imperfetto.


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