L’Europa disunita dalla Brexit. 60 anni dopo, meglio ricominciare senza Londra

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Dai sei stati fondatori del 1957 (Francia, Germania Federale, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo) siamo passati ai 28 in 50 anni, per ritrovarci nel breve volgere di un Referendum in 27, con la Brexit, voluta da poco più della metà dell’elettorato di quella Gran Bretagna, fin dall’inizio riottosa, quando entrò con molte riserve e accordi vantaggiosi nel 1973, per poi tirarsi fuori dalla fondazione dell’Euro con la dannosa clausola “opting out”, in nome di un concetto di Sussidiarietà a senso unico alla firma del Trattato di Maastricht del 1992. Da allora, aver trattenuto i riottosi e utilitaristi anglosassoni è stata la vera rovina del progetto federale dell’Unione Europea, come la sognarono Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e come contribuirono a fondarla Adenauer, Spaak, De Gasperi e Martino, Monnet e Schuman. Ripensando agli anni di febbrile idealismo comunitario, suona oggi davvero profetico il “veto” del presidente francese, Charles De Gaulle, contrario all’ingresso del Regno Unito, perché ritenuta la “longa manus” degli Stati Uniti.

Uomo dal grande fiuto strategico-militare e politico (e non solo per il possente naso!), De Gaulle era stato lungimirante e aveva visto giusto (lui che aveva conosciuto da vicino i vertici britannici durante la guerra, a partire dal malmostoso conservatore Churchill) come sarebbe stata destabilizzante l’entrata dell’isola nella comunità europea continentale.

In effetti, Londra ha sempre svolto un ruolo di freno all’integrazione globale dei singoli paesi nell’UE, imponendo anche la sua visione iperliberista sui mercati finanziari, sulla gestione dell’economia e sulle restrizioni del welfare. La sua tenace battaglia a favore delle privatizzazioni sia delle industrie “strategiche”, controllate dal management pubblico, sia dei servizi (trasporti ferroviari, aerei e marittimi, reti energetiche e di TLC, sistema bancario, poste) si è imposta sulle altre visioni dell’economia politica: quella del “capitalismo misto” centralistico alla francese e quella del cosiddetto “sistema renano” regionalistico alla tedesca. La conservatrice, iperliberista Margaret Thatcher prima, seguita poi dal clone John Major e quindi emulata in salsa pseudo-laburista da Tony Blair, sono riusciti a modificare l’impianto solidaristico e progressista dell’Unione, scardinandone pezzo per pezzo, accordo dopo accordo, il significato profondo ed innovativo della sua fondazione, spingendo l’Europa verso il neo-capitalismo senza regole nordamericano.

I risultati drammatici li stiamo vivendo da dieci anni, dall’inizio della grande crisi economica e finanziaria mondiale, dalla quale non si riesce ancora ad uscirne fuori né con ricette “liberal-conservatrici” né con opzioni “keynesiane”. Le maggiori “famiglie politiche” del vecchio continente, dai centristi-popolari e democristiani ai socialdemocratici, sono rimaste così impelagate nelle sabbie mobili, non superando per debolezza propria e per paura del crescente euroscetticismo, misto a “sovranismo” e xenofobia, questa fase di depressione economica ma anche psicologica ed ideale.

La Thatcher per imporre il suo neo-liberismo secondo le ricette del reazionario Milton Friedman e della sua “Scuola di Chicago”, non esitò ad imbrigliare la concertazione con i sindacati e ridurre il ruolo delle Trade Unions a semplici comprimarie del partito laburista. Il suo metodo selvaggio di privatizzazione influenzò purtroppo sia gli altri partiti centristi e popolari, ma anche i socialdemocratici fino ad allora determinanti nelle scelte di politica economica europea. Paesi come quelli scandinavi, insieme all’Olanda e alla Danimarca, abituati ad un welfare post-bellico attuato dai governi di sinistra, cominciarono a tentennare nelle loro certezze solidaristiche. Certo, la Germania rimase l’ultimo baluardo nella controriforma neo-liberista, così come la Francia, mentre l’Italia e la Spagna si fecero soggiogare dal novo vento del “capitalismo compassionevole” agitato dal nuovo vessillifero Blair. E così i rispettivi governi di centrosinistra si gettarono a capofitto nelle più disastrose privatizzazioni, che anziché risolvere i problemi del Debito pubblico ne hanno ampliato la voragine, dando purtroppo spazio all’ingresso nelle industrie e nei servizi ad alta redditività della finanza extra-europea.

In Italia, ironia della sorte, furono proprio gli epigoni del nuovo centro-sinistra, ex-democristiani convertiti all’aperturismo verso gli ex-comunisti, come Beniamino Andreatta e Romano Prodi, e liberali come Carlo Azeglio Ciampi a spingere verso il sistema di privatizzazioni all’anglosassone, invece di adottare il cosiddetto “sistema renano”, ovvero la compartecipazione di privati e finanza pubblica-regionale con la creazione dei Consigli di sorveglianza dove sono presenti i rappresentanti dei maggiori sindacati. Sistema questo che è tutt’ora alla base della crescita economica e dello sviluppo occupazionale in Germania e del suo surplus commerciale.

Ad Andreatta si deve la separazione tra Banca d’Italia e ministero del Tesoro, che ha spianato la strada alla speculazione privata sul debito pubblico, e la scelta della cosiddetta “banca universale”, con il sistema creditizio che ben presto abbandonò la leva del finanziamento alle imprese, sostituendola con la finanziarizzazione e la commistione perniciosa nell’azionariato aziendale. E come ciliegina sulla torta del neo-capitalismo la chiusura dell’IRI, decisa con l’accordo del Commissario europeo, il belga socialdemocratico Karel Van Miert (poi consulente della Goldman Sachs, nonché ispiratore della Deregulation nei servizi telefonici e dei voli aerei), con la conseguente  spoliazione industriale e delle reti del nostro paese, a favore di Germania, Francia e Gran Bretagna, ognuna delle quali nel proprio settore di eccellenza veniva ad occupare i vuoti concorrenziali lasciati dalla miopia degli economisti di centrosinistra.

E mentre la Gran Bretagna, dalla fine degli anni Novanta, col “Blairismo” conosceva il lungo autunno della sua decadenza economica, perdendo tutto il settore industriale, aprendosi come terra di conquista della finanza mondiale (soprattutto araba, russa e cinese), la Francia e la Germania si accaparravano i mercati delle assicurazioni, delle banche, delle industrie manifatturiere ad alta tecnologia e delle Reti (tlc, trasporti, energia).

Ma in tutta questa trasformazione, che spingeva l’Italia fuori dal club dei big del G8, superata anche da Cina, Brasile, India, Russia e Sudafrica, anche l’Europa, grazie al disastroso allargamento ad Est, fortemente voluto dalla Germania (pronubo l’allora presidente della Commissione Prodi, l’allievo prediletto di Andreatta), cominciava a sgretolarsi. Il trionfo delle teorie anglosassoni sulle scelte di politica economica ed istituzionale dell’Unione ha così generato l’euroscetticismo, il ritorno al nazionalismo anteguerra, lo svilupparsi di movimenti xenofobi, al grido di “via gli immigrati e i musulmani”. L’Europa da terra di accoglienza e solidarietà si è trasformata in un magma di istinti egoistici e antidemocratici.

E come una legge del “contrappasso”, proprio quei paesi che più avevano usufruito nel dopoguerra del Welfare State diffuso, grazie alla lungimiranza di governi socialdemocratici (Germania, Olanda, Danimarca e Scandinavia) o allo statalismo di stampo sovietico (Polonia, Ungheria, Cekia e Slovacchia), oggi sono i vessilliferi del neoliberismo anche in campo sociale: ridurre le spese pubbliche e gli aiuti alle fasce più deboli, per risanare le casse dello Stato.

E se provassimo invece a ricominciare dal 1957, da quella spinta idealistica e visionaria? Senza voltarsi indietro per dire “Arrivederci” agli amici inglesi! Magari, inviando loro lettere profumate, come tra vecchie signore all’ora del thé, ricordando che il Regno Unito è morto come potenza mondiale neocoloniale nel 1947 (appunto 70 anni fa!) e che con la sciagurata Brexit tornano a risuonare anche le cornamuse per l’indipendenza dell’orgogliosa, ricca Scozia e le arpe celtiche dell’indomita Nord Irlanda.


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