Il diritto di contare (Hidden figures)

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Nel titolo inglese, Hidden Figures, il gioco di parole è ancora più sottile, in quanto ‘figures’ significa sia numeri, cifre, che ‘figure’ e riassume benissimo il senso del film; al cui centro c’è una ragazza di colore superdotata per la matematica fin dall’infanzia, la quale a causa di un’estrema emergenza viene arruolata dalla NASA nel programma spaziale per la messa in orbita della prima navetta a stelle e strisce. Ma la giovane signora è costretta a revisionare i calcoli in gran parte oscurati, criptati, per misure di sicurezza (“lei è una spia comunista?” le chiedono nel colloquio preliminare), e inoltre deve stare attenta ad apparire il meno possibile, quasi a non ‘figurare’, essendo donna, e per di più nera, in un ambiente rigorosamente maschile e di mentalità segregazionista. Sono tre le ragazze nere che per compiti diversi vengono reclutate dall’agenzia spaziale statunitense in virtù delle loro indiscusse capacità intellettive; Mary Jackson ha una marcia in più per l’ingegneria, benché ostacolata negli studi e solo dopo molte lotte ammessa ai corsi specializzazione, “ma solo serali”, da un giudice della contea solleticato nell’amore proprio e messo alle corde dalla sua dialettica. Sarà lei a risolvere i problemi costruttivi dello scudo esterno della capsula che perde pezzi nell’impatto con l’attrito atmosferico. La seconda Dorothy Vaughan possiede una naturale inclinazione alla elaborazione dei dati, e i capi si vedono costretti a impegnarla nel primo centro di calcolo sperimentale IBM, ancora a schede perforate. La terza, il genio matematico, viene arruolata nel sancta sanctorum della NASA, lo Space Task Group dove il fior fiore degli scienziati, coordinati dal capo carismatico Al Harrison (Kevin Costner), sono impegnati a calcolare le traiettorie orbitali per il lancio e il rientro della navetta sulla terra.

Siamo in Virginia, a Langley, nei primi anni Sessanta, l’era di Kennedy. La sfida fra URSS e USA per la conquista dello spazio è una corsa frenetica a chi arriva prima, e l’Unione Sovietica gode di un inquietante vantaggio: un suo satellite artificiale, lo Sputnik, sta già circolando intorno alla Terra, collezionando chissà quali informazioni fotografiche sugli apparati di difesa del mondo occidentale; inoltre la Russia è riuscita a mettere in orbita la prima navetta spaziale della storia con alla guida il leggendario Jurij Gagarin. I vertici del Pentagono sono alla paranoia, l’opinione pubblica americana mastica amaro l’umiliante defaillance, il  Presidente in persona pone come obiettivo prioritario il recupero dello svantaggio, e il capo missione esercita la massima pressione sugli scienziati che forse stanno battendo il passo: blanda motivazione, scarso orgoglio, fiacco spirito di squadra?  Le operazioni di calcolo procedono a rilento: “Cercate un matematico!” sbraita verso le alte sfere, e intanto torchia i sottoposti stabilendo orari di lavoro senza limiti, minacciando di sospendere gli stipendi, annullando i permessi fino alla risoluzione di tutti i problemi: “Prendete il telefono e avvertite le vostre mogli”, ingiunge, afferrando il suo apparecchio e aggiungendo a mezza bocca: “intanto inizio dalla mia”.

Il suo ‘ponte’ di comando è un ufficio a vetri sopraelevato sull’openspace in cui lavorano i cervelloni, da cui può dominare, controllare, verificare a vista ogni progresso. In questa tensione al calor bianco arriva con il suo scatolone di effetti personali Katherine Johnson, selezionata, benché sia nera, come revisore dei calcoli. L’accoglienza non è delle più cordiali, serpeggia un non celato fastidio tra i colleghi, quando non un’aperta ostilità; nessuno le indica la scrivania a cui sedersi, il diretto superiore le molla all’istante un gigantesco  faldone con pagine di calcoli quasi totalmente cancellate a inchiostro nero. La macchina elettrica del caffè le viene interdetta, accanto ne compare un’altra più piccola con sopra la scritta ‘colored’. Ma l’inconveniente più grave è che nell’edificio non esistono i bagni per i neri e la nuova venuta a ogni bisogno deve correre all’esterno fino a un altro dipartimento distante un chilometro. Lo fa senza fiatare, sopporta ogni angheria pur di svolgere il proprio lavoro a cui tiene con tutta se stessa, ma perde ogni volta un tempo prezioso, sebbene si porti dietro le sue scartoffie e continui a lavorare seduta sul water. Arriva il momento in cui il capo le chiede ragione delle sue protratte assenze, e lei si vede costretta a dichiarare le condizioni di avversità in cui è costretta a svolgere la sua delicata funzione.  Harrison ha  seguito dal proprio ufficio i calcoli da lei svolti sulla grande lavagna a muro e si è reso conto che la donna ne sa più di tutti gli altri scienziati messi insieme; così non perde tempo, prende un piccone, si reca in corridoio e sotto lo sguardo esterrefatto della vigilanza smantella il cartello indicatore che nega il bagno ai neri: “Qui alla NASA la pipì è tutta dello stesso colore”. Divieto rimosso, si  cambia musica. Presto Katherine avrà diritto di partecipare alle riunioni riservate, e in un summit di tutti i maggiori titolati della missione per affrontare il  problema cruciale del richiamo a casa della navetta, sarà lei nel silenzio sospeso dei partecipanti, a indicare la soluzione alla lavagna in una rapida sfilata di formule e cifre. John Glenn, il pilota prescelto, è tra i presenti. E quando a Cape Canaveral, pochi minuti prima del lancio ci sono ancora discordanze sul calcolo delle orbite da seguire, sarà egli stesso,  mentre mette piede nella capsula, a tagliar corto: “Fate rifare i calcoli a quella signora, se a lei tornano, io partirò tranquillo”.

Una folla immensa è accorsa per assistere al primo volo di un americano nello spazio; il razzo si innalza dalla rampa perforando il cielo, i moduli si sganciano uno a uno come previsto e la capsula trova felicemente il suo assetto orbitale. L’entusiasmo è alle stelle, fino a quando si accendono alcune spie di allarme e bisogna disporre in fretta un rientro anticipato: il tempo a disposizione è limitatissimo per calcolare la traiettoria obbligata. Per la prima volta Katherine viene ammessa nella sala operativa, è a lei che tutti si rivolgono, il fallimento sarebbe una sciagura, non soltanto per la perdita di una vita umana, ma anche  per la ricaduta negativa di immagine sulla NASA e su tutto il Paese. Per un lungo momento viene perso il contatto audio con il pilota, scende un gelo di angoscia,  tutto dipende dai calcoli di Katherine che, per quanto sgomenta, continua fiduciosa ad accennare di sì con la testa, ed ecco che torna la voce di John Glenn, forte e chiara: la navetta ha effettuato la manovra di rientro nell’atmosfera terrestre resistendo al violentissimo attrito, il successo è assicurato! Puntuali si aprono i paracaduti e la capsula ammara con assoluta precisione nella ristretta area prevista. “Ho sempre sognato di fare il bagno alle Bahamas” scherza il pilota dal suo abitacolo. L’America ce l’ha fatta! Kennedy rivolge alla nazione il suo discorso di esultanza e di pace, mentre dall’URSS arrivano le congratulazioni di Nikita Chruščëv. L’impresa più ambiziosa è andata a segno, si apre una nuova era per l’umanità. E non soltanto nello spazio, ma tra noi sulla Terra, dove grazie all’impresa epocale sono crollate le discriminazioni razziali nel più geloso pensatoio d’America. Nessuno potrà mai più comportarsi come in precedenza,  per nessuno in futuro il colore della pelle potrà costituire un principio di diversità tra gli esseri umani. Katherine e le altre due amiche, salite in un lampo ai vertici della ricerca spaziale, parteciperanno anche al programma dello sbarco sulla luna di Neil Armstrong e continueranno a lavorare alla NASA fino a tarda età. A Katherine Johnson verrà intitolato addirittura il padiglione in cui ha prestato servizio per la prima volta.

Allo scorrere dei titoli di coda vediamo il suo vero volto in una fotografia  in bianco e nero: un viso bellissimo coronato da capelli grigi, ancora più bello di quello prestato dall’attrice Taraji P. Henson, eccellente, che ha interpretato il personaggio. Nella vita reale la scienziata, vedova in giovane età del marito, aveva allevato tre figlie soltanto con l’aiuto della madre, prima di risposarsi in seconde nozze con un simpatico Colonnello della Guardia Nazionale. Il film è molto commovente, a più riprese le lacrime sgorgano spontanee, ma c’è una sequenza in cui è impossibile trattenerle. A missione compiuta, essendo ormai entrati in funzione i computer, Katherine viene licenziata (per brevissimo tempo, si accorgeranno assai presto di non poter fare a meno di lei); mentre sta raccogliendo le sue cose dalla scrivania, la funzionaria del personale, Vivian Mitchell, le si avvicina con un cofanetto elegante, dono di tutti i colleghi: “E’ per lei, signora Johnson”. Le dice chiamandola per  la prima volta, rispettosamente, per cognome. Lei lo apre e rimane senza fiato: contiene una bellissima collana di perle. Non a caso. Al momento dell’assunzione il protocollo di abbigliamento per le donne prescriveva di indossare esclusivamente gonne, scarpe con il tacco e nessun gioiello; tollerato un filo di perle. Un vezzo che la ragazza, poverissima, non aveva mai potuto permettersi.

Kevin Kostner, ingrassato e fuori forma, probabilmente non ha più il fisico per ballare coi lupi, ma con la macchina da presa dimostra ancora di saper danzare come pochi al mondo.


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