Energumeni lessicali e libertà di espressione

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Alcuni recentissimi fatti di cronaca – dall’impedimento a prendere la parola a Napoli opposto al Segretario della Lega Nord Matteo Salvini, agli ostacoli frapposti da Germania prima e Olanda poi alla propaganda dei ministri dell’aspirante dittatore turco Recep Tayyp Erdogan, per non parlare della comunicazione alla Donald Trump – ripropongono con drammaticità antichi quesiti: quanto è ampia la libertà di espressione? È forse illimitata? E se ha dei limiti, a che altezza si collocano? Si tratta di questioni determinanti per la democrazia, considerando che l’autonomia in discorso comprende anche il diritto di critica e quello di cronaca su cui si fondano le grandi Costituzioni scritte dopo la Seconda Guerra mondiale assieme alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e come già stabiliva, in precedenza, il Primo Emendamento della Costituzione americana introdotto nel 1801.

I termini fondamentali del dilemma si trovano declinati già nella Bibbia dove è scritto (Siracide, 28, 18): “La spada uccide tante persone, ma ne uccide più la lingua che la spada” a significare la pericolosità della parola e, quindi, la responsabilità che è connessa al suo uso. Non vi è libertà, anche d’opinione, senza responsabilità e il problema si pone, quindi, domandandosi se discorsi di razzismo, xenofobia, violenza, odio, sopraffazione politica, religiosa o sessuale siano conciliabili o meno con una possibilità illimitata di esternare.

Vi è chi nega che il diritto di comunicazione si spinga fino a questo punto e ritiene che il patrimonio di valori costruito nei secoli, anche a costo di tante vittime, permetta di fissare una linea di demarcazione così da non consentire la diffusione di manifestazioni del pensiero che si pongano in contrasto con la ricchezza di principi e di ideali così tanto faticosamente raccolta. Vi è chi, a coloro i quali affermano con Voltaire: “Non condivido nulla di quanto dici ma sono pronto a dare la vita affinché tu possa dirlo” oppongono che, ai tempi di Voltaire (o chi per lui coniò la celebre frase), non erano ancora nati né il nazismo, né il fascismo, né i loro mostruosi orrori, né la consapevolezza dei danni che provocano certi discorsi, specialmente se si dà loro la possibilità di essere ripetuti e diffusi.

Si tratta, in ogni caso, di posizioni rispettabili: le une privilegiano la libertà di espressione in quanto tale, le altre vogliono tutelare le conquiste della civiltà democratica occidentale ed entrambe aspirano al bene comune, ma qui occorre intendersi sul valore di quella libertà e stabilire se essa abbia un carattere assoluto o se invece debba intendersi in senso relativo e, quindi, suscettibile di limitazione.

Il contrasto non è di poco momento perché, se si consente che frasi di odio e supremazia si propaghino, possono anche prendere il sopravvento finendo col soffocare proprio quella libertà che ne aveva consentito l’iniziale tollerante diffusione. In altri termini, la libertà di espressione può essere addirittura causa della sua stessa estinzione tanto che, per tornare agli esempi della cronaca di questi giorni, assistiamo a Erdogan che pretende di promuovere le sue idee liberticide (anche di opinione, come i tanti giornalisti turchi arrestati dimostrano) invocando proprio la libertà di esternazione e accusando (lui!) di nazismo e fascismo chi gliela nega. Il rischio di cortocircuito e contraddizione è quindi massimo quanto evidente.

Non è facile trovare la risposta agli iniziali quesiti perché questi interrogano le nostre più profonde convinzioni: certo (in astratto) che sono pronto a dare la vita perché tu possa esprimere la tua opinione, ma se la tua idea (in concreto) è contro l’etica e la democrazia, se pensi che una donna nera ed ebrea debba essere fritta, io sono veramente pronto a versare anche solo una goccia del mio sangue perché tu possa affermarlo pubblicamente? Qui entra in gioco la Storia che ci ha insegnato come parole di supremazia razziale e religiosa hanno veramente potuto fare milioni di proseliti e incendiare il mondo. È la paura della forza delle parole a spingerci a invocare paletti alla libertà di espressione. La potenza delle parole di odio l’abbiamo vista all’opera e abbiamo assistito a quali devastazioni espone l’umanità, da Auschwitz e Dachau sino a Parigi, Bruxelles, Nizza e Berlino.

Eppure non credo che si possa deflettere, nonostante tutte le comprensibili ragioni contrarie, dal considerare la libertà di espressione come un valore assoluto, un principio che non tollera paletti, né limiti. Nell’adottare questa posizione non c’entrano gli ideali alati e non negoziabili quanto, piuttosto, un pragmatismo terra terra in base al quale non è togliendo la parola a idee disumane che cancelleremo la bestialità la quale, come l’acqua di una sorgente, si farà strada comunque e dovunque finché la capacità di assorbimento della ragionevolezza, come la sabbia, non l’avrà dissipata. Ma per arginare la ferocia delle idee e delle parole occorre conoscerle, sentirle esprimere, seguirne gli itinerari tra la folla recuperando poi, se necessario, gli individui uno per uno all’equilibrio.

Alla libertà di un lessico negativo, corrisponde un altrettanto vasta libertà di dialogo in positivo e ferma deve essere la convinzione che, quand’anche parole di odio, grazie all’emancipazione di qualunque forma espressiva, potessero affermarsi sino a conculcare quella stessa libertà che le ha generate, la Storia rimetterà le cose a posto donando ancora più forza a quella fondamentale autonomia dopo la sua eclisse. Del resto, una società che non fosse in grado di gestire le sue libertà, sarebbe comunque destinata a perire: vuoi di dissolutezza, vuoi di violenza, come la favola di Re Travicello narrata da Esopo insegna da venticinque secoli.

Di per sé, negare la parola a chi la chieda – per qualunque tipo di affermazione – costituisce una violenza inaccettabile e intollerabile: l’esatto contrario della libertà che si vuole salvaguardare.

E poi, la libertà di espressione è talmente vasta da avere infiniti modi di dispiegarsi per convincere a rimanere sulla retta via senza ricorrere a campioni di oratoria. Pensiamo, per esempio, a Matteo Salvini in territorio partenopeo. Togliendogli la parola ci siamo persi l’occasione per il ritorno di un nuovo, ineffabile Eduardo che ne L’oro di Napoli, nei panni di don Ersilio Miccio, aveva già insegnato ai vicini come salutare l’andirivieni nello stretto vicolo dell’arrogante Duca Alfonso Maria di Sant’Agata de’ Fornari. Una perdita, ahimè, incolmabile. A meno che non si inviti di nuovo Salvini all’ombra del Vesuvio.


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