Egitto, Garbage City, un mondo ai margini. Che il Governo non ama raccontare

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«Trent’anni fa c’erano solo tende e baracche con i tetti di latta, stuoie per dormire, e coperte stese a terra, sulle quali insegnavamo a cucire, e anche a leggere e scrivere», racconta la comboniana vicentina suor Bertilla Storato, incontrata in Egitto, al Cairo. «La prima cosa che dicevamo alle ragazze era di andare a lavarsi le mani, quanto erano sporche…», aggiunge la casertana suor Speranza Tuosto. Sotto quelle coperte, non c’era duro asfalto, né terra battuta, ma un insolito e maleodorante “cuscino” di cartoni, cartacce, sacchetti di plastica, stracci, rifiuti organici, gomma e resti di copertoni. Quell’imparare a leggere e scrivere e a cucire non erano cose scontate. In un mondo chiuso in sé stesso, erano piccole e grandi conquiste di cui gioire ogni giorno. Di suore negli anni se ne sono alternate molte, di varie congregazioni; portavano fogli, penne, aghi, fili e forbici.

Erano gli anni Quaranta del secolo scorso, quando a Manshyet Naser, località del Cairo, arrivarono dei profughi, per lo più copti ortodossi, scappati dal distretto di el-Badari, nella regione rurale di Asyut, nell’Alto Egitto (la parte meridionale del Paese), colpito dalla siccità. Oggi in quell’insediamento sotto il colle Moqattam, vivono trentamila persone; le tende hanno lasciato posto alle case, e anche a condomini alti parecchi piani; acqua e luce sono arrivate. Benvenuti a Garbage City, la Città dell’immondizia. Molto è cambiato dai primi anni. Un passante mi dice che anche l’odore è diverso. Racconta che non si poteva respirare, mentre oggi è più accettabile. Sarà, ma la prima zaffata mi induce la nausea. Poi ci si abitua. E molto rimane uguale. La zabbala (parola araba che significa immondizia) resta protagonista. Capre e cani randagi continuano a razzolare tra i rifiuti, di cui strade, cortili e terrazzi abbondano. A Garbage City vivono gli spazzini (zabbalini) del Cairo. Raccolgono l’immondizia (circa 3.000 tonnellate al giorno), la differenziano – a donne e ragazzi l’ingrato compito di separare i rifiuti – e riciclano il riciclabile. E se ieri i grandi sacchi di yuta venivano per lo più trasportati su carretti tirati da muli, oggi se ne vedono sempre meno, hanno lasciato il posto a camioncini e pick up, i cui cassoni vengono caricati all’inverosimile, pericolosamente in bilico. Chi arriva con i rifiuti raccolti, chi se ne va con quelli sminuzzati, perché tutto viene ridotto al macero; poi c’è chi si occupa della commercializzazione.

Se le piramidi in Egitto sono la vita passata, questa è la vita reale. Ogni negozio, ogni magazzino, ogni casa, ha la porta aperta sulla strada. Se ti affacci, vedi una gran frenesia. Il meccanico, il fornaio, i saldatori, il macellaio… tutti indaffarati. Chi non lavora, sta al baretto a fumare la shisha (narghilè). Ci sono anche l’ospedale e una piccola clinica, tanto più necessari in un luogo che, a causa dei gas dannosi sprigionati dai rifiuti, registra una forte incidenza di patologie respiratorie, infettive e della pelle. C’è la scuola fino alle medie, ma si vocifera che alcune famiglie iscrivano i figli, ma poi li tengano a casa, perché sono più utili nel lavoro di divisione dei rifiuti.

Garbage City è un mondo ai margini, che il Governo non ama raccontare (chi lavora con i rifiuti è considerato di livello sociale inferiore), anzi, in qualche periodo le autorità hanno cercato di rimuoverlo, ma gli oltre 20 milioni di abitanti della capitale egiziana producono un ammontare di rifiuti che, senza gli zabbalini, rischierebbe di diventare un problema di salute pubblica.

Quando si sono insediati i primi abitanti, spazzatura era sinonimo di povertà, oggi è un business: una sessantina le aziende, che impiegano quasi 1.400 dipendenti. In questo luogo surreale, gli uomini hanno fatto un miracolo: nella roccia hanno scavato un santuario; è dedicato a san Simone il conciatore, ed è meta di pellegrinaggi. L’altare ha un soffitto di roccia alto 17 metri, mentre l’anfiteatro, in grado di ospitare 20mila persone, è a cielo aperto. Tutt’attorno, nella roccia sono incise scene della Bibbia: un bel modo di fare catechismo. A contemplare la chiesa dall’alto è la statua del papa dei copti d’Egitto, Shanuda III, morto il 17 marzo 2012, dopo essere stato per 42 anni leader della comunità. Qui si prega, si medita e si digiuna. Perché la fede è una cosa seria. E non è scissa dall’attualità. Nel 2011, migliaia e migliaia di fedeli hanno pregato per invocare la protezione di Dio sui giovani radunati a piazza Tahrir.

Alla cura delle anime pensano padre Samaan Ibrahim, qui dal 1974; padre Abraam Fahmy e padre Boula Shawky. Padre Ibrahim, 74 anni, è un uomo corpulento, con una lunga barba disordinata, racconta che all’inizio non voleva venire, ma poi è stato sopraffatto dalle necessità che vedeva: «Non c’erano strade, né elettricità, né acqua. Non era un luogo per la vita umana. La puzza da animali morti era orribile. Ma non ero molto colpito da questo. Quello che mi aveva colpito era la gente, che aveva bisogno della grazia di Cristo».

La storia degli zabbalini viene da lontano, più per tradizione, che per distanza geografica. Una tradizione su cui suor Madelein Cinquin, della congregazione di Notre Dame de Sion, nota al mondo come suor Emmanuelle d’Egitto, ha inciso, con pazienza, tenacia e sudore. Il suo sogno di dedicarsi ai poveri si realizza inaspettatamente quando ha passato i sessant’anni (era nata in Belgio, a Bruxelles, il 16 novembre 1908). Quel sogno prende la forma di Manshyet Naser, un quartiere che, per i suoi abitanti infestati da pulci e pidocchi, era la vergogna del Cairo. Suor Emmanuelle vi si trasferisce, avversata da tutti. Dalla sua comunità, che non capisce la sua scelta di vivere in un tugurio, in compagnia di topi e scarafaggi, dalla gerarchia copta, dagli integralisti musulmani, ma anche dagli stessi zabbalini, che faticano a credere alla sua buona fede; pensano che lei – cristiana cattolica – li voglia convertire. È un’impresa titanica quella che la suora belga si prefigge. Ma in dieci anni quel quartiere, che tanto assomiglia alla più famosa “Città della gioia” raccontata dallo scrittore Dominique Lapierre, cambia aspetto. L’orgoglio dei bambini di saper leggere e scrivere, la soddisfazione delle donne di poter cucire la loro galabeya (vestito tradizionale arabo), sono impagabili. Ma a suor Emmanuelle non basta: vuole un ambulatorio, l’inceneritore, la scuola, l’asilo, il laboratorio artigiano, il campo sportivo, il cinema all’aperto. Resta nei cuori degli abitanti come abilati (monaca mia), che ha ridato dignità a chi l’aveva perduta in un mare di rifiuti. Questa è stata la vita della madre Teresa d’Egitto (morta il 19 ottobre 2008, un mese prima di compiere cento anni), forse meno mediatica di quella albanese, ma altrettanto santa.


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