Roberto Baggio: la vita come un’opera d’arte

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Un’opera d’arte, un ricamo sulla tela, un’elegante serie di movenze da ballerino condite da una prestanza fisica e da una potenza esplosiva nel tiro che, al netto degli infortuni, alcuni dei quali veramente tragici, ne hanno fatto uno dei più grandi giocatori italiani di tutti i tempi: auguroni Robertro Baggio!

Compie oggi cinquant’anni il Divin codino, nato a Caldogno il 18 febbraio del ’67 e capace di dispensare meraviglia sui campi di tutta Italia per ben due decenni, partendo da Vicenza per indossare, poi, le prestigiose maglie di Fiorentina, Juve, Milan, Bologna ed Inter, prima di concludere una carriera invidiabile, coronata dal Pallone d’oro vinto nel ’93, a Brescia, nella mitica provincia italiana, là dove lo volle Carletto Mazzone per regalargli gli ultimi scampoli di gloria in una città e in una squadra che, in breve, ne fecero il proprio idolo, il proprio mito, il proprio punto di riferimento nonché il perno di una compagine che, anche grazie alla sua presenza, divenne il buen retiro di fuoriclasse ormai a fine corsa come Pep Guardiola e la culla di giovani campioni in ascesa come Andrea Pirlo e Luca Toni, protagonisti qualche anno dopo dell’indimenticabile notte di Berlino.

Perché Baggio non è stato solo un fenomeno del calcio, un esempio di professionalità e correttezza e uno dei simboli più amati dell’Italia nel mondo: è stato anche questo, per carità, ma è stato soprattutto un uomo come se ne incontrano pochi, dotato di una passione per la vita, di una spiritualità, che gli deriva anche dalla conversione al buddhismo, e di una filosofia della calma e della serenità davvero sorprendenti.

Nulla è stato facile per questo talento in grado di far rivivere i fasti di Rivera e di anticipare quelli di Totti e Del Piero: le ginocchia fragili che spesso l’hanno tradito, il rapporto di amore e odio con la maglia azzurra, cui pure ha regalato alcune perle preziose come, ad esempio, i due gol che ci consentirono di andare avanti nel corso del Mondiale americano, quando molti, a cominciare da Pizzul, si erano ormai rassegnati alla sconfitta, l’amore mai sbocciato con i colori bianconeri, i rapporti difficili con Sacchi e burrascosi con Lippi e infine la necessità di ricominciare daccapo, a 33 anni, ormai sul viale del tramonto, da una realtà assai meno fastosa di quelle nelle quali aveva regalato magie fino a quel momento. E proprio qui sta la grandezza e l’unicità di Roby Baggio: altri, al suo posto, si sarebbero probabilmente rifiutati di “abbassarsi” agli umili livelli del Brescia, non avrebbero colto la sfida di andare a lottare ogni anno per la salvezza dopo aver alzato al cielo scudetti e coppe ma lui no, lui quella sfida la prese come un’occasione di riscatto, di riscossa personale e collettiva e, con la fascia da capitano al braccio, adorato dall’ambiente e considerato dall’allenatore un punto di riferimento insostituibile, condusse il Brescia a quattro salvezze più che onorevoli, facendo da chioccia ai suoi successori, i quali hanno riconosciuto, tutti, che nulla nella loro vita e nella loro carriera sarebbe stato lo stesso se a vent’anni non avessero incontrato un simile monumento, pronto a consigliarli e a farli innamorare non solo delle luci della ribalta ma anche del sacrificio, della fatica e degli sforzi che richiede l’attività di un calciatore professionista.

Cosa resta, dunque, di Roberto Baggio, ora che le luci si sono spente, il sipario si è abbassato, una domenica di tredici anni fa a San Siro, e il sogno ha lasciato il posto alla normalità e alla tranquillità di un’esistenza riservata e lontana dai riflettori?
Cosa resta della sua arte, della sua purezza, del suo esempio e del suo candore nell’ammettere il declino, il logorio fisico e l’usura di un corpo stremato dalla fatica e dagli infortuni?
Cosa resta di questo gigante amato dal popolo e assai meno da chi ha avuto la fortuna e l’onore di allenarlo e di misurarsi con la sua unicità?

Di Roby Baggio a me rimane un rigore: quello sparato verso il cielo di Pasadena, in quella maledetta finale del ’94 contro il Brasile, quando vide una porta lassù e segnò il suo gol immaginario che nessuno ha saputo valorizzare, che non vale nulla sul piano statistico, che non ci ha consentito di vincere la Coppa del mondo ma anzi ce l’ha fatta perdere e che, nonostante tutte queste considerazioni ai limiti dell’ovvio, resta una delle sue imprese più belle, per via dell’eleganza con cui seppe ammettere l’errore, accettarlo e poi ricominciare.

Perché il Divin codino ha sempre visto una porta nel cielo, ha sempre intuito cose che altri non avevano capito e non capiranno mai, ha sempre vissuto, amato, giocato, creduto, sognato e sperato aggrappandosi a quei pochi brandelli di poesia che sono sopravvissuti nella società contemporanea, in una stagione in cui il lirismo del suo modo di essere costituisce una boccata d’ossigeno per chi non intende rassegnarsi al trionfo di un pragmatismo cinico che, in realtà, non ha nulla di concreto; al contrario, è soltanto la scomparsa dello sport, dei suoi valori e di quei princìpi senza i quali la vita stessa perde ogni bellezza, trasformandoci in robot tanto produttivi e affamati di gloria e di ricchezza quanto disumani, poveri e, quel che è peggio, soli.


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