Moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia

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In via Fani, all’altezza di via Stresa c’è una lapide che ricorda cinque uomini. È posta all’altezza del piano stradale e a volte quasi non la si nota. Ricorda il martirio di cinque uomini, sterminati in pochi minuti e il rapimento di un sesto. La targa in realtà parla solo dei cinque: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi, “uccisi con fredda ferocia mentre adempivano al loro dovere”. Pur se non menzionata nella stele, quell’incrocio costituisce una delle pagine più buie  della storia repubblicana. Tra le 9:02 e le 9:05 di giovedì 16 marzo 1978 saranno sparati 91 colpi di arma da fuoco, l’obiettivo: il sequestro di uno dei principali esponenti della Democrazia Cristiana – fautore dello storico accordo di solidarietà nazionale – Aldo Romeo Luigi Moro. Pochi minuti per una carneficina.

Lo spettacolo di Ulderico Pesce, drammaturgo lucano – impegnato in un teatro-narrativa che si snoda ed attorciglia (dipende dai punti di vista) attorno a tematiche scottanti, problematiche accantonate della nostra quotidianità – ricostruisce le vicende del rapimento di Moro, dal punto di vista di Ciro Iozzino, fratello di Raffaele Iozzino – il solo degli agenti di scorta ad avere il tempo di sparare gli unici due colpi di difesa; e della sua amicizia con Adriana Zinzi, sorella del vicebrigadiere  Francesco Zizzi, al suo primo giorno di scorta, gravemente ferito e morto  poco dopo al Policlinico Gemelli.

Il racconto di un adulto con gli occhi di un adolescente è il leitmotiv di un’opera che non vuol solo ricostruire i fatti ma sollevare dubbi su una pagina della storia Italiana su cui gravano ancora forti misteri. A partire dalle carte processuali e in collaborazione con Ferdinando Imposimato – allora giudice istruttore di Roma a cui verrà affidata con notevole ritardo l’inchiesta sul fu-rapimento e avvenuto omicidio dell’onorevole Moro – Ciro cercherà di ripercorrere i fatti e agguantare le incertezze che contraddistinsero quel 16 marzo e i 55 giorni successivi. Il sogno di suo fratello, Raffaele Iozzino di vedere “Aldo Moro Presidente della Repubblica, Aldo Moro che zappa e l’Italia fertile”, diviene il sogno di sua madre – impietrita dal dolore – e il suo. Ma poi, il 9 maggio, in via Caetani, fu ritrovata una Renault 4 rossa. “Ciro in Italia è meglio non sognare”, gli dirà il giudice Imposimato. O forse “No”, è meglio capire o almeno provarci.

Dei 91 bossoli ritrovati sul luogo dell’agguato, 23 sembrano dileguarsi nell’area: 68 saranno i proiettili ritrovati, di cui 61 raggiunsero i bersagli, ma 49 saranno tutti sparati dalla stessa arma, un FNAB-43, secondo una prima ricostruzione. Eppure i mitra dei terroristi, secondo quanto da loro dichiarato in sede processuale, si incepparono. Chi sparò con tanta precisione da uccidere tutti e risparmiare l’onorevole? Perché l’auto non era blindata? Come facevano i terroristi a conoscere il percorso già la sera prima, quando forarono le gomme di un fiorista ambulante che quel giorno non poté parcheggiare il suo camion in via Fani? Perché una radio libera annunciò il rapimento mezz’ora prima che lo stesso avesse luogo? Che fine fecero le foto scattate da un testimone appena dopo l’agguato? E soprattutto che fine fecero due delle cinque borse che l’onorevole Moro aveva sempre con sé? Misteri d’Italia.

Una petizione scorta questa come altre opere teatrali del Centro Mediterraneo delle Arti: dal traffico illecito dei rifiuti alla tratta degli schiavi, passando per l’amianto e le scorie nucleari; un modo per fare teatro impegnato ed impegnativo, ma soprattutto uno dei pochi strumenti di democrazia diretta a cui appellarsi per sollevare il velo dell’oblio. Una richiesta semplice quella di apporre sulla lapide di via Fani, le parole “Uccisi dalle Brigate Rosse e da uomini ancora non identificati”, e di sollevare la stessa dal piano stradale onde evitare che i nostri amici a quattro zampe possano scambiarla per un orinatoio.

Ma soprattutto che ben venga la pretesa di  desecretare i documenti; chiarire il ruolo di alcuni membri dei Servizi Segreti italiani presenti in via Fani, quali il col. Camillo Guglielmi, seppur morto qualche anno fa, e del consigliere statunitense, Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e superconsulente  del Governo italiano ai tempi del sequestro, che in un’intervista dichiarò: “decidemmo di lasciare che Moro morisse con le sue rivelazioni. La decisione finale è stata di Cossiga e, presumo, anche di Andreotti”. Nel 2014 il Pg di Roma Luigi Ciampoli, ha chiesto alla procura di procedere. Si attende la rogatoria internazionale.

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