Mercato al Circo Massimo chiuso. I 5Stelle arroccati nella torre d’avorio del Campidoglio

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Come asserragliati sulla Torre d’avorio del Campidoglio, i “gladiatori dalle 5 Stelle” stanno perdendo il rapporto con quell’ampia maggioranza che pure li aveva portati ad un successo clamoroso, facendo eleggere sindaco Virginia Raggi. Liti intestine, gelosie personali, scellerate scelte dei collaboratori e, da ultimo, il “via libera” alla costruzione di uno stadio in terra alluvionale con annessa calata di cemento e, infine, la chiusura del primo “mercato a KM zero” della Capitale, che da anni accoglieva centinaia di migliaia di acquirenti italiani e stranieri. Tutti sintomi di un “avvelenamento” da potere improvviso, che si va consumando nelle sale cesariane del colle più famoso al mondo.

Nulla di fatto per il momento negli incontri tra la Coldiretti, organizzazione dei coltivatori e allevatori che gestisce Campagna Amica, e gli emissari della Giunta Raggi. Il mercato non si sa quando e se riaprirà, nel frattempo sarebbe stato promesso uno spazio attiguo all’Aventino, nei pressi del suggestivo Giardino degli Aranci. Per gli espositori, però, sono solo parole per annacquare le loro proteste e quelle, crescenti, dei consumatori, che stanno riempiendo pagine intere dei Facebook, oltre che firmando le due petizioni sul sito di www.change.org (già superate le 10 mila firme!).

Ma a chi fa gola la chiusura del Mercato di San Teodoro a due passi dal suggestivo Circo Massimo e sotto le rovine del Palatino? Non solo ai politici che vorrebbero spostare i consensi della Coldiretti, accusata di aver appoggiato il PD di Renzi alle ultime elezioni amministrative (anche se fu Alemanno nel 2009 ad aprirlo nell’antico Mercato ebraico del pesce). Si fa strada un’altra ipotesi: quella, secondo la quale, una volta rifatti alcuni lavori urgenti, dopo l’estate verrebbe emanato un bando per una nuova concessione, questa volta di orientamento più “mercantilista”. Una golosa opportunità per qualche catena privata dell’agro-alimentare e ristorazione già affermata, come le esperienze similari all’Ostiense e alla Stazione Termini dimostrano, dove insieme alla compravendita di prodotti ci sono anche spazi per mangiare, bere e passare del tempo. E il Mercato di San Teodoro con la sua posizione strategica per il turismo italiano ed internazionale sarebbe davvero un boccone molto ghiotto: 250 mila visite l’anno scorso, il certificato di “Eccellenza” dal sito TripAdvisor, con oltre 140 segnalazioni e posizionato al 170° posto su 1.400 siti romani di attrazione che non siano ristoranti, alberghi, monumenti.

Gli oltre 60 espositori, che pagano ciascuno un affitto tra i 300 e i 750 euro al mese alla Coldiretti, occupano oltre 300 addetti con un indotto di alcune migliaia di occupati. Per lo più sono famiglie che lavorano nelle zone agricole più famose del Lazio: vini DOC, DOP e IGP, così come gli olii pregiati della Sabina, di Canino e delle colline ciociare; formaggi ovini e caprini all’altezza dei pregiati concorrenti francesi, insieme alle mozzarelle e alla ricercata carne di bufala; verdure, ortaggi e frutta rigorosamente di stagione, tutto “Bio”; carni bovine ricercate come la Chianina, norcineria e insaccati di maiale IGT; pesce, crostacei e frutti del Tirreno della Cooperativa Pescatori di Terracina. Qui si rifornivano anche i ristoratori e gli chef più noti della Capitale, oltre ai clienti abituali e i turisti di tutto il mondo. Qui era possibile anche mangiare cibi di qualità, al posto dei confezionati e dei “trash food” venduti nei camioncini attorno ai monumenti dell’antica Roma.

Roma ha bisogno di realtà commerciali di qualità e di “vendita diretta” a prezzi ragionevoli. Da 15 anni all’incirca, Roma è stata invece trasformata, abbrutita, snaturata, complici le varie amministrazioni comunali, in una sorta di suk di frutterie-alimentari-chincaglierie varie gestite da egiziani, bengalesi, srilankesi, tutti di religione islamica, che non tengono conto spesso delle norme igieniche. I prodotti, mal conservati e scarsamente controllati (tranne qualche “sortita” ad uso giornalistico ad Ostia, commissariata per mafia!), vengono probabilmente dal mercato parallelo gestito dalla camorra, che ormai la fa da padrona sia al grande ortomercato di Fondi sia ai “generali” di Roma.
Egiziani, cinesi, bengalesi, pakistani, cingalesi (spesso appena arrivati in Italia e accompagnati da “interpreti”) comprano le licenze da vecchi commercianti, che lasciano perché troppo anziani, senza “eredi” e oberati da tasse eccessive, acquistandole con denaro contante. Si parla di più di 50 mila euro a licenza, a secondo del luogo e della metratura, e di regimi fiscali favorevoli. Ovunque ormai, dal centro storico fino all’estrema periferia, prolificano questi negozi, a volte vicinissimi tra loro. Tutti offrono mercanzie allo stesso prezzo, come ci fosse un “cartello” a decidere il tariffario, come avviene per i caldarrostai di castagne (quelli del centro storico, che la magistratura ritiene potrebbero far capo ad una stesa ditta).

Come rimediare a questo imbarbarimento economico, culturale e sociale della capitale? Chiudendo le poche realtà gestite dalla Coldiretti? Oppure chiedendo alla magistratura di indagare a fondo sul fenomeno distorsivo del mercato agro-alimentare e al sindaco Raggi e al suo assessore Meloni di fare marcia indietro, estendendo invece queste esperienze nei vari Municipi, anche utilizzando vecchi mercati coperti rionali, che oggi versano in condizioni precarie, senza più la loro identità e con la presenza di venditori ambulanti extracomunitari con banchi di chincaglierie di bassissima qualità?

Purtroppo, è tutto il settore del commercio agro-alimentare che andrebbe rivisto in una città come Roma, dove sta scomparendo il tessuto culturale, economico e sociale di quella che noi romani e i turisti di tutto il mondo ricordavamo e amiamo ancora, e che un’amministrazione intelligente dovrebbe difendere e sviluppare. Magari prendendo spunto da esperienze estere, come quelle che da molti anni vanno avanti con successo a Parigi e a Bruxelles, per esempio: dove i “mercatini BIO” sono diventati punti di aggregazione, di valorizzazione dei prodotti tipici, di opportunità per acquisti a prezzi ragionevoli. Soprattutto, valorizzando queste attività che riconducono alle origini della nostra agricoltura di qualità, alla tutela della bio-diversità, che stanno impiegando moltissimi giovani. E con la disoccupazione giovanile al 40%, servirebbe davvero a fornire loro una speranza e una grande opportunità.


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