Turchia, appello di premi Nobel e scrittori contro la repressione mentre Erdogan incassa la riforma costituzionale

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Mentre Recep Tayyip Erdogan si autonomina ‘sultano’ della Turchia, modificando la Costituzione attribuendosi quei poteri che gli permetteranno di cancellare le ultime resistenze democratiche parlamentari, numerosi premi Nobel e scrittori famosi lanciano un appello contro la repressione nei confronti degli intellettuali e dei giornalisti turchi dopo il fallito golpe dello scorso luglio.
All’iniziativa, promossa dall’organizzazione PEN International, hanno aderito tra gli altri Elfriede Jelinek, Mario Vargas Llosa e J.M. Coetzee.
“Vi scriviamo per farvi sapere che non siete soli – è il messaggio dei firmatari della lettera aperta agli esponenti del mondo della culrura e dell’informazione in Turchia- Vi scriviamo per dirvi che non resteremo pigri nel vostro momento del bisogno. Non resteremo in silenzio mentre i diritti umani vengono violati. Alzeremo la nostra voce a livello globale contro ogni tentativo di mettere a tacere le vostre”.
Come ricorda l’organizzazione promotrice dell’appello al momento sono in carcere 150 tra scrittori e giornalisti, il che rende il Paese il primo tra quelli con il maggior numero di intellettuali e operatori dell’informazione incarcerati, superando Cina, Egitto ed Eritrea.
Intanto in Turchia, dopo i colloqui a Washington con il presidente americano Donald Trump, è arrivata Theresa May.
Il primo ministro britannico ad Ankara incontrerà il presidente Erdogan e il premier turco, Binali Yildirim.
Si tratta del primo viaggio della May in Turchia da quando è subentrata a David Cameron.
La visita, secondo il quotidiano Hurriyet, è finalizzata a sancire nuovi patti commerciali dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
Resta da capire se, oltre all’altro tema su cui l’incontro bilaterale focalizzerà l’attenzione, ovvero la lotta al terrorismo jihadistala, May toccherà anche argomenti più spinosi come la crisi dei migranti e il rispetto dei diritti umani.
Ma se il faro, come e presumibile, saranno gli interessi economici, c’è poco da sperare.
Il realismo e la necessità di portare a casa accordi vantaggiosi potrebbe lasciare in un cono d’ombra gli aspetti poco graditi ai partner turchi.
Chi invece ha dimostrato di non piegarsi a logiche di comodo o di business è stata la Grecia che ha rifiutato di estradare dei militari che Ankara ritiene abbiano preso parte al tentativo di colpo di stato in Turchia dell’estate scorsa. Ahmet Guzel, Gencay Boyuk, Feridun Coban, Abdullah Yetik, Ugur Ucan, Suleyman Ozkaynakci, Mesut Firatand e Bilal Kurugul fuggirono a bordo di un elicottero Black Hawk poche ore dopo il tentato golpe. Gli uomini – due maggiori, quattro capitani e due sergenti – hanno chiesto e ottenuto asilo politico ad Atene. Durissima la reazione del governo turco che attraverso il ministro della Difesa Fikri Isik ha condannato la decisione della Corte suprema greca di non estradare gli otto soldati.
Isik ha definito la sentenza come una “decisione politica” che ”non rende giustizia e porterà gravi conseguenze nei rapporti tra i due paesi”.
La Grecia non sembra però spaventata e non cederà alle minacce.
La repressione in atto in Turchia è un elemento più che valido per mantenere ferma la propria scelta di garantire asilo ai militari che, se rimpatriati, rischierebbero di essere imprigionati a vita. Se non peggio.
In poco più di 6 mesi con l’istituzione dello stato d’emergenza, che ha permesso arresti ‘facili’ e annullato ogni garanzia costituzionale, oltre 40mila sospetti golpisti sono stati imprigionati.
Tra gli oppositori di Erdogan finiti nel mirino della giustizia turca anche gli esponenti in Parlamento del partito filo curdo, a cominciare dal leader Selahattin Demirtas e 14 deputati eletti nell’Hdp.
La ‘purga’ di Erdogan non ha risparmiato gli organi di informazione.
Ad oggi sono almeno 177 i media chiusi e 144 i giornalisti arrestati per presunti legami con il terrorismo.
Il tutto mentre il potere è sempre più concentrato nelle mani del presidente turco che nel disinteresse dell’opinione pubblica e della stampa occidentali, prese dall’insediamento di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti, ha incassato l’approvazione della riforma della Costituzione, che dà pieni poteri al capo dello Stato conferendogli il completo controllo sulla magistratura, la nomina e l’esautorazione dei ministri e la guida del Governo che non avrà più un Primo Ministro.
La Turchia si è così trasformata in quel ‘sultanato’ agognato da tempo da Erdogan che viveva come un fastidio insopportabile le ‘interferenze’ del Parlamento.
Con il sostanziale azzeramento del numero dei mandati precedentemente esercitati, il presidente potrà governare fino al 2029 per poi individuare, tra le persone fidate, il suo successore.
Certo, resta il passaggio referendario di aprile, ma visto il controllo pressoché totale di Erdogan, informazione e media compresi, la consultazione appare solo una formalità – farsa.
Il tutto nell’indifferenza del blocco occidentale incapace di frenare l’escalation antidemocratica in un Paese che fino a pochi anni fa si candidava a entrare in Europa.


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