Prodi, l’Ulivo, la Consulta, Ficarra e Picone. Caleidoscopio politico-culturale dell’Italia che verrà

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Per commentare la sentenza della Consulta, che molto probabilmente spalanca le porte al voto anticipato a giugno, parto da un film che ho avuto modo di vedere domenica scorsa: “L’ora legale” dell’esilarante duo comico Ficarra e Picone. Un film garbato ed ironico sui vizi e la tragica ipocrisia dei nostri connazionali, sempre pronti a scagliarsi contro la fantomatica casta, ormai assurta a paradigma del male, salvo poi rivelarsi essi stessi casta nel momento in cui si vanno a toccare i loro piccoli interessi di bottega. Un Paese lungo e mai davvero unito, neanche dai Mille di Garibaldi, dai Savoia e dalla parabola monarchica prima e repubblicana poi, che ha ormai superato il secolo e mezzo di vita senza purtroppo riuscire a costruire davvero quella comunione d’intenti che siamo in grado di trovare unicamente nei momenti difficili.
Aveva, infatti, ragione Biagi quando sosteneva che l’aspetto migliore dell’Italia è l’umanità della sua gente, la quale si rivela quando le cose vanno male: gli Angeli del fango a Firenze, i ragazzi che hanno spalato il fango e i detriti a Genova, nei giorni dell’alluvione dell’ottobre del 2014, i volontari della Protezione civile che abbiamo visto all’opera prima in Abruzzo, poi in Emilia e, in questi giorni, nelle zone del Centro Italia sconvolte da ogni sorta di calamità naturale, esempi bellissimi di quest’unicità del nostro popolo che, però, non riesce a trasferirsi nella vita di tutti i giorni.

Il film, ambientato in un paesello immaginario della Sicilia, narra la storia di una comunità che si ribella al proprio sindaco, corrotto e ben oltre i limiti della legalità, in nome del cambiamento e della trasparenza, affidandosi a un giovane professore che presenta un programma effettivamente rivoluzionario e, una volta eletto, prova ad attuarlo con discreto successo. Povero ingenuo! I suoi concittadini, difatti, nel momento in cui il mal capitato inizia a rispettare le promesse fatte e a metterli davanti alle proprie responsabilità, spedendo i vigili a fare i vigili, i forestali a fare i forestali e multando i comportamenti scorretti, viene subissato di critiche, sottoposto ad ogni sorta di boicottaggio e, infine, costretto alle dimissioni dagli stessi che, certi che il suo programma fosse né più e né meno che il solito insieme di chiacchiere, lo avevano votato e osannato al suo arrivo, sempre in nome del cambiamento e del rinnovamento, ossia di due slogan oramai abusati e spogliati del loro senso e della loro valenza originaria.
Si ride, ci si diverte ma si riflette anche vedendo questa plastica rappresentazione del nostro modo di essere, della nostra intrinseca allergia alle regole, del nostro rifiuto totale dell’etica della responsabilità, della nostra incapacità di considerare i beni pubblici alla stregua di beni comuni, dunque patrimonio della collettività da rispettare con ancora maggiore scrupolo di quello con cui si rispettano i propri, del nostro egoismo congenito e, soprattutto, della nostra attitudine a vedere la pagliuzza negli occhi degli altri, tralasciando la trave che c’è nei nostri.
Tanto per citare alcuni esempi, coloro che per dieci anni hanno pontificato contro la casta, in nome dell’onestà e del rispetto pedissequo delle regole, sono gli stessi che oggi si trovano a fare i conti con la complessità del governare, esibendo un personale politico alquanto discutibile e, sia pur in buona fede e con una cospicua dose di ingenuità, non mostrandosi affatto impermeabili alle volontà traffichine dei soliti faccendieri, con le mani sempre in pasta e per i quali destra, sinistra e movimenti vari vanno ugualmente bene, a patto che non ostacolino i loro affari, le loro speculazioni e i loro interessi privati.

Coloro, invece, che per anni si sono scagliati contro l’anomalia del conflitto d’interessi berlusconiano sono gli stessi che ne hanno quanti, e forse più, dell’ex Cavaliere e che, soprattutto, una volta al governo, si sono comportati assai peggio degli avversari contro cui un tempo scendevano in piazza, approvando le medesime leggi e compiendo i medesimi scempi, per giunta nel silenzio complice di una stampa mai così corriva e compiacente.
Coloro che si scagliavano contro Roma ladrona e contro i terroni che vivono a scrocco, infine, sono gli stessi che da un quarto di secolo si godono il clima mite e gli agi della Capitale e che oggi vanno a lucrare sulla disperazione di un Mezzogiorno abbandonato a se stesso, nel tentativo di convincere i suoi abitanti che la causa principale del loro malessere, oltre ai perfidi burocrati di Bruxelles, sono gli immigrati che fuggono dalle guerre e dalla barbarie dello Stato Islamico, in un pericoloso gioco a perdere in cui ai penultimi vengono additati gli ultimi come responsabili della propria condizione di sofferenza: un “divide et impera” moralmente intollerabile che mina il concetto stesso di democrazia, oltre che il nostro tessuto culturale e politico e le fondamenta stesse del nostro stare insieme.
Al che vien da domandarsi se sia davvero la legge elettorale il problema o se, per dirla con Nino Bixio, fatta l’Italia, non sia arrivato il momento di fare, o per meglio dire di rifare, gli italiani, provando a cambiarne mentalità e abitudini, provando a renderli seriamente un popolo adulto, provando finalmente a condurli in Europa come sognavano di fare Ciampi e Prodi quando accettarono la sfida dell’euro e di un cambio di direzione di marcia che specie quest’ultimo ha pagato a caro prezzo.
Vien da domandarsi che ne sarà di questo nostro povero Paese una volta consumato il lavacro elettorale che molti oggi invocano come la panacea di tutti i mali.
Vien da chiedersi che ne sarà delle nostre istituzioni, poste in mani tanto inesperte e impreparate e spesso utilizzate per fini impropri e personali, cercando di soddisfare il proprio “particulare” a scapito della comunità e tradendo così il senso stesso nonché la missione storica della politica.
Vien da domandare al professor Prodi se davvero pensi che ci siano oggi le basi per riproporre un esperimento, quello dell’Ulivo, che, per quanto costituisca uno dei pochi aspetti positivi del ventennio che abbiamo alle spalle, può esercitare un certo fascino su chi ha un’età che gli consente di ricordare quella stagione ma, purtroppo, dice poco o nulla alle giovani generazioni che avrebbero, al contrario, bisogno di una sinistra in grado di non farsi scavalcare finanche dal Forum di Davos sui temi che dovrebbero esserle propri e di riaffermare la propria identità a livello europeo e globale; una sinistra, per intenderci, che dovrebbe riappropriarsi di battaglie come la lotta contro le disuguaglianze e a favore dell’inclusione e della piena cittadinanza di coloro che oggi non votano o votano per i cosiddetti “populisti”, essendo stati dimenticati e lasciati ai margini del proprio degrado da coloro che se ne sarebbero dovuti occupare e, invece, hanno tradito la propria missione storica.

Un nuovo Ulivo, un nuovo respiro di centrosinistra, dunque, sarebbe più che auspicabile ma Prodi è il primo a sapere, e fortunatamente a dire in maniera esplicita, che andrebbe posto su fondamenta in grado di rispondere alle esigenze e ai dubbi di una società che vive ormai da nove anni nell’incubo di una crisi che ha cambiato tutto e fatto crollare miseramente le antiche certezze e i paradigmi dai piedi d’argilla che anche il pensiero progressista ha assunto in maniera acritica, di fatto rinnegando se stesso e facendo venire meno la propria ragione di esistere.
E non basta nemmeno blaterare di periferie come fa qualche dirigente romano che, poi, in Parlamento, vota senza problemi Jobs Act e Buona scuola, dimostrando di non avere per nulla chiara la portata storica della mutazione globale in atto.
Non basta recuperare alcune parole d’ordine e alcuni slogan del passato, per quanto efficaci e accattivanti, in quanto non è di un piccolo passo avanti che ha bisogno la nostra comunità nazionale e internazionale ma di un radicale cambio di stagione, capace di interpretare il passaggio d’epoca che stiamo vivendo. E affinché questo avvenga dobbiamo cambiare, innanzitutto, noi stessi, il nostro modo di essere, le nostre frequentazioni, il nostro immaginario e le nostre letture, cercando di osservare realmente il mondo con gli occhi di chi non ce la fa più e sfoga la propria rabbia nel consenso dato a Trump o alla Brexit.
Faceva notare Gianni Cuperlo, in una bella intervista rilasciata ieri all’Unità che, se avessero votato solamente i giovani, in America avrebbe vinto Sanders, nel Regno Unito avrebbe prevalso il remain mentre Renzi avrebbe subito una sconfitta ancora più clamorosa e definitiva di quella che ha ricevuto lo scorso 4 dicembre.
E allora ripartiamo da qui, ripartiamo da noi, da una splendida generazione assetata di diritti, di uguaglianza e di futuro; comprendiamo che la crisi è sistemica, che gli sfoghi anti-casta e il malessere sociale generato dalla medesima si alimentano a vicenda e che bisogna ricominciare a camminare seguendo l’esempio della Chiesa per i poveri e per gli ultimi mostrataci da papa Francesco in questi anni di pontificato.
Interroghiamoci, coltiviamo la nobile arte del dubbio e attraversiamo questo deserto con la certezza che non sarà né breve né privo di ostacoli ma che, proprio per questo, ne vale, ora più che mai, la pena. Con meno di questo l’Italia non può farcela e nemmeno l’Europa e, soprattutto, sarebbe un tradimento: l’ennesimo, l’ultimo, quello dal quale non sarebbe più possibile rialzarsi.


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