Mario Soares, il presidente della libertà

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Chi appartiene alla mia generazione non può sapere cosa voglia dire avere una dittatura a poche migliaia di chilometri da casa. Chi appartiene alla mia generazione, nata dopo la caduta del Muro, mai venuta a contatto con barriere e dazi doganali e persino poco avvezza all’utilizzo delle valute nazionali, fa fatica anche solo ad immaginare che un tempo tanto la Spagna quanto il Portogallo, oggi mete abituali di vacanze e gite scolastiche, fossero costrette a soffrire sotto il tacco di due barbare dittature. Il franchismo in Spagna, l’Estado Novo di Salazar in Portogallo e un numero imprecisato di scrittori, artisti e oppositori politici condannati al carcere o all’esilio: questa era la realtà in cui è cresciuto e ha vissuto per circa mezzo secolo questo socialista orgoglioso e combattivo, animato unicamente dalla fede nelle proprie idee e dall’amore per una moglie, Maria Barroso, non meno protagonista e partecipe di lui alla vita politica del Paese, in grado di resistere alle sofferenze e ai lunghi anni di esilio e di tornare in patria, in seguito alla Rivoluzione dei garofani del 25 aprile 1974, per governarla nel segno dell’equità, dell’europeismo e della fiducia nel futuro, dopo decenni di arretratezza, disperazione e di quella profonda ignoranza più volte stigmatizzata da Saramago nei suoi capolavori.

Non a caso, la principale battaglia di Soares fu proprio quella per spezzare le catene dell’analfabetismo e della grettezza, della chiusura mentale e della paura del prossimo che attanagliavano un Paese in cui ciascuno era costretto a guardarsi costantemente alle spalle, visto che il clima che si respirava era esattamente quello descritto da Tabucchi in “Sostiene Pereira”, fra delazioni, sospetti e punizioni esemplari nei confronti degli avversari del regime.
In due esperienze da primo ministro e in dieci anni da presidente della Repubblica, fra il ’76 e il ’96, Soares riuscì nell’impresa di rendere il Portogallo come lo conosciamo oggi, governando con onestà, passione e amore per un popolo di cui conosceva e aveva condiviso per anni le ristrettezze e i drammi, fino a identificarsi con esso e ad abbracciarlo idealmente con uno stile improntato alla sobrietà, alla pacatezza e alla ricostruzione di ciò che quattro decenni di dittatura avevano distrutto.
Mário Soares fu un costruttore di ponti, un lottatore sincero, un amante della democrazia, il presidente simbolo di una Nazione affamata di liberta, innamorata della libertà e capace di riappropriarsene e difenderla strenuamente da ogni possibile assalto. Insegnò alla sua gente a ribellarsi con convinzione, a credere in se stessa, a volersi bene e a far proprio il concetto di bene comune, dopo esserne stata espropriata e dopo essere stata ridotta, di fatto, in schiavitù dalla violenza e dalla volgarità di una tirannide feroce proprio perché ormai era diventata quasi un’abitudine, uno stato d’animo, un abito mentale collettivo cui solo in pochi, e Soares tra questi, ebbero il coraggio di non rassegnarsi.
Ora riposa e Lisbona, la triste, malinconica, anacronistica Lisbona lo saluta con affetto, prima di cullarlo con le note del Fado e con la passione di cui solo le città intense, profonde, dolenti e intimamente straordinarie sono in grado di essere custodi.


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