Ilaria Alpi, “Un omicidio al cuore del giornalismo”. La mamma Luciana, indomita: “Andrò da Pignatone. Mattarella legga la sentenza di Perugia. Datemi una mano…”

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Ci fu depistaggio, lo scrivono i giudici. Non solo non sono stati trovati esecutori materiali e mandati degli omicidi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994, ma chi doveva assicurare giustizia, e onorare la memoria dei due giornalisti del Tg3, ha invece creato un falso colpevole, Hashi Omar Hassan, oggi libero dopo aver scontato 16 anni di carcere in forza di una condanna per omicidio diventa definitiva. Lo hanno fatto per coprire i veri assassini?

Non si sa, ma ci fu certamente un depistaggio delle indagini da parte di uomini dello Stato – anche se non si può applicare la legge che introduce il reato, fortemente voluta da Paolo Bolognesi, approvata solo lo scorso 2 agosto. È certo che sono corrosive le motivazioni con cui la Corte di Appello di Perugia ha stabilito l’innocenza di Hashi, ma solo dopo che una giornalista, Chiara Cazzaniga di “Chi l’ha visto” è andata in Inghilterra a trovare l’accusatore Ahmed Alì Rage, più noto come Gelle, il quale, davanti al suo microfono, ha ritrattato tutto.

La mamma di Ilaria, Luciana, indomita ha ringraziato Chiara: «Sei una brava giornalista, anche se sei ancora una free lance». In una affollatissima conferenza stampa alla Camera organizzata dal deputato del Pd Walter Verini («questa vicenda segna l’importanza del giornalista d’inchiesta in Italia») insieme a Beppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa, («nel caso Alpi il depistaggio non è una categoria dell’animo, ma un certo insabbiamento delle indagini»), Luciana Alpi, insieme al suo avvocato Giovanni D’Amati, spiega che andrà dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone a chiedere giustizia e si appella al capo dello Stato Mattarella: «Legga le motivazioni della sentenza che assolve Hashi: come è stato possibile colpire un innocente e non fare le indagini?»

Pensate che Hashi non è mai stato sul luogo dell’agguato, ma era all’interno dell’ambasciata americana, dall’altra parte della città. La ricostruzione che lo inchioda viene bollata come «falsa» e «contraddittoria». Chi parlò dicendo il falso, Gelle, connazionale dell’uomo finito in carcere, scomparve alla fine degli anni Novanta dopo aver deposto davanti all’autorità giudiziaria senza neanche mai essersi sottoposto alla prova dibattimentale.

«Gli italiani volevano chiudere il caso e trovare il colpevole», scrivono i magistrati di Perugia nelle motivazioni della sentenza pronunciata lo scorso 13 gennaio. E così Gelle, dopo un primo contatto con due intermediari somali – tra cui Ahmed Washington, un funzionario dell’Unione Europea a Mogadiscio, che gli indicano il nome di Hashi – conosce l’ambasciatore Giuseppe Cassini che, secondo la sua versione, gli propone un accordo. Ma Gelle, secondo la corte di Perugia, non avrebbe dovuto essere tanto centrale perché la sua versione «dà conto di un soggetto in alcun modo credibile».

È un personaggio che «non era in alcun modo consapevole» di «essere stato coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata». Secondo i magistrati di Perugia, a suffragio di ciò c’è il suo «sfilarsi nel modo più goffo» scappando in Gran Bretagna e ipotizzando che «i verbali fossero in parte stati alterati» dato che Gelle non riconosceva «come propria la firma» sui verbali redatti davanti alla polizia, ai tempi rappresentata anche dal commissario Lamberto Giannini (oggi direttore del Servizio centrale antiterrorismo), e al pm Franco Ionta.

Stipendiato dall’ottobre al dicembre 1997, al falso supertestimone fu trovato un lavoro in nero in un’officina dove veniva eseguita la blindatura delle auto di servizio della polizia. A chiedere al titolare di farlo, era stato Renato Masia, direttore del servizio di motorizzazione della polizia di Stato, e Gelle, ogni giorno, veniva accompagnato al e dal lavoro da due agenti, come se fosse sotto scorta. E e ci va fino a quando sparisce nel nulla.

Le attività di depistaggio sono anche «avvalorate della modalità di ‘fuga’ […] e dalle mancate concrete ricerche» tanto che Gelle fu trovato «non dalle forze di polizia, ma da giornalisti della Rai» che «che non avevano certo le possibilità investigative di cui all’epoca di disponeva per ricercarlo». Nella sentenza di Perugia non si rivolgono accuse, ma viene ricostruito un quadro in cui Gelle viene rassicurato del fatto che «nessuno sarebbe stato arrestato» e la sua credibilità sarebbe risultata rafforzata dall’essere stato l’autista di giornalisti italiani, come Remigio Benni dell’Ansa, che tuttavia ha sempre smentito la circostanza.

Infine si tenga conto che il somalo scomparso aveva già raccontato la sua versione ad Ahmed Mohamed Sabrie, collaboratore della Bbc, che già ne aveva parlato alla Commissione parlamentare presieduta da Carlo Taormina. E ancora prima la sentenza che aveva mandato assolto Hashi aveva scritto che «né la polizia somala, né il Sisde, né i carabinieri italiani presenti a Mogadiscio avevano svolto […] effettive indagini mentre i relativi rapporti […] sono definiti fantasiosi». Alla luce di tutto ciò, si è levato un appello. «Datemi una mano», ha detto Luciana Alpi, «c’è molto da fare».


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