Democrazia partecipata

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Sfiducia crescente nei partiti, a cominciare da quelli al governo. Ritorno inatteso della partecipazione politica. Il 19° Rapporto “Gli Italiani e lo Stato”, curato da Demos per Repubblica, conferma l’apparente paradosso del referendum del 4 dicembre. Gli italiani amano la Costituzione, per tanti aspetti ancora inattuata. Sono anche disposti a cambiarla, superando il bicameralismo paritario ma soprattutto con la riduzione del numero dei parlamentari. Continuano però a non fidarsi di chi ne propone oggi l’aggiornamento piuttosto che l’attuazione. Il problema posto è evidentemente quello di conciliare la democrazia rappresentativa con la democrazia partecipata, ma nonostante la sberla del referendum sono ancora in pochi, ai piani alti della politica, a prenderlo in considerazione.

Se è vero che si è allargata la voglia di partecipazione “politica e critica” – come commenta Ilvo Diamanti sulla Repubblica – dovrebbe essere chiaro che riforme, legge elettorale, statuti dei partiti non possono continuare, come hanno fatto finora, a procedere nella direzione contraria. Con l’accentramento ai vertici, la cooptazione dall’alto, l’oligarchia “democratica”,  le liste bloccate, il maggioritario forzato. Se i vecchi circoli di partito non sono messi in grado di esercitare la necessaria mediazione tra la classe dirigente politica e le idee, le attese, le proposte che emergono dal territorio, dovranno essere i cittadini a sostituirli con nuove forme di militanza e dialettica democratica. Oppure il trionfo del populismo sarà inevitabile.

Io non sono tra quelli che escludono a priori la politica come professione. Al contrario, ritengo che difficilmente un cittadino intelligente e onesto potrebbe rivelarsi  un buon politico senza avere acquisito con la preparazione e con l’esperienza un certo grado di professionalità. Le disavventure degli amministratori 5 stelle, sia pure con le dovute eccezioni, confermano. Tanti altri esempi ne abbiamo avuto in passato, da quando i partiti a caccia di voti hanno preso a candidare intellettuali di prestigio e personaggi televisivi per compensare la scarsa credibilità dei loro militanti. Anche la selezione di questi ultimi tende ormai a sopravvalutare la capacità di comunicare (vendere) rispetto a quella di ascoltare, comprendere, progettare e mediare, che sono invece le virtù principali della buona politica. Le primarie non bastano a garantire la partecipazione democratica. Se la qualità della nostra classe dirigente peggiora, nel nostro come in tanti altri paesi, ciò è dovuto anche all’idolatria della competizione tra individui, esasperata dai media, piuttosto che fra le idee e gli orientamenti politici. E più si fa dura la competizione, più probabilità ci sono che a vincere, con ogni mezzo, siano i concorrenti più determinati a trarne vantaggio personale, poltrone e denaro, piuttosto che buoni risultati per il bene comune.

Il pregiudizio diffuso sulla “casta”, sull’equazione politici di professione = corrotti, non deve sorprendere. D’altra parte è un fatto che 25 anni dopo Mani Pulite tangentopoli non è mai finita. Secondo il rapporto Demos, l’86% degli italiani è convinto che la corruzione politica sia rimasta uguale o addirittura peggiorata. Se allora si parlava di un danno sociale valutabile in 10mila miliardi di lire, oggi si calcola in 60 miliardi di euro. E’ un fatto anche che corruttori e corrotti, grazie anche all’abilità dei loro avvocati, non vanno in carcere quasi mai. L’unica legge che permetterebbe di processarli e condannarli, quella sulla prescrizione, è ferma in parlamento da quasi due anni. “Non hanno smesso di rubare, ma solo di vergognarsi”, dichiara Camillo Davigo, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati.

L’isolamento della “casta” non si sconfigge con il populismo, ma con la vigilanza democratica. Il problema è riconciliare la democrazia rappresentativa con la democrazia partecipata, le istituzioni con i cittadini. Questo è anche il programma di un’associazione a cui sono iscritto da molti anni, “Libertà e Giustizia”. Paul Ginzborg, che fa parte del Consiglio di Presidenza, denuncia il “silenzio pressoché totale da parte dei ceti politici sul ruolo che la democrazia partecipata dovrebbe giocare, insieme a quella rappresentativa, in una democrazia moderna. Renzi e i suoi compagni (ma non solo loro) fanno tanti discorsi sulla partecipazione dal basso (alla Leopolda, nelle assemblee cittadine, ecc.), ma la verità dei rapporti parla chiaramente di una partecipazione fasulla dove sono ancora una volta i politici, e soprattutto il loro capo, a decidere”.

Oggi  “Libertà e Giustizia” è  impegnata come altre associazioni a dare un futuro ai comitati del NO dopo la vittoria al referendum del 4 dicembre, a cominciare dall’impegno per una nuova legge elettorale proporzionale e per i referendum sul lavoro della CGIL. Secondo il professor Ginzborg, anche  il  Movimento Cinque Stelle ha deluso, ” basato com’è su un capo carismatico con poteri enormi, una versione della democrazia on line altamente mistificante e una fioritura preoccupante di fazioni”. Pur condividendo queste perplessità, a me pare che internet possa confermarsi sempre più uno strumento indispensabile, anche se non esclusivo, della democrazia partecipata.

Un modo giovane, dialetticamente complementare a quello dei media tradizionali, per risalire la china dell’individualismo che, se ha avuto in passato il merito di contribuire all’affermazione dei diritti e delle libertà civili, ha finito negli ultimi decenni per spegnere gradualmente i sentimenti di solidarietà e di rispetto per i beni comuni. Chissà se, da parte degli italiani, l’aver posto Papa Francesco in testa alla graduatoria delle personalità meritevoli di fiducia non possa significare anche un recupero di quei sentimenti, sui quali il pontefice non cessa di predicare.

*Nandocan


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