Chiesti 142 anni di carcere per il leader dell’Hdp Demirtas, ultimo baluardo a difesa dei principi democratici in Turchia

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La scure giudiziaria in Turchia, saldamente nelle mani di Recep Tayyip Erdogan, si è abbattuta sul leader del partito filocurdo Hdp, Selahattin Demirtaş mentre continua la repressione contro la stampa: nelle ultime 24 ore arrestati tre giornalisti. In carcere sono finiti Ünal Tanik, ex redattore capo del sito web Rota Haber, Sultan Eylem Keleş, studente di giornalismo e collaboratore di JIN – News Agency e Semra Turan, redattrice di Dicle News Agency.
Intanto a Dyarbakir il procuratore del tribunale dove si svolge il processo a Demirtaş e il co-leader della terza formazione politica turca, Figen Yuksekdag, ha chiesto per lui 142 e per Yuksekdag 83 anni di prigione.
Entrambi sono in carcere da novembre, quando furono arrestati nell’ambito di un’inchiesta sul Partito dei Lavoratori del Kurdistan e sulla minaccia terrostica che rappresenta per il Paese.
I due esponenti Hdp avevano rigettato tutte le accuse rivoltegli dagli inquirenti.
Nel 2016, con un decreto presidenziale approvato a maggioranza in Parlamento, è stata abolita l’immunità parlamentare.
Da quel momento per i 53 deputati filocurdi è iniziato un vero e proprio calvario, con continue indagini e arresti. In meno di due mesi sono stati aperti 500 fascicoli, di cui oltre 200 per terrorismo.
La situazione giudiziaria dei parlamentari si è complicata quando, chiamati a deporre dai magistrati, hanno disertato le udienze annunciandolo pubblicamente.
La risposta alla posizione assunta dai deputati, i quali avevano affermato che non si sarebbero mai presentati in Procura spontaneamente, è stata la retata di novembre che ha portato in carcere decine di esponenti dell’Hdp.
Le accuse vanno dalla vicinanza al Pkk, all’appartenenza a un’organizzazione terroristica, dall’incitamento della popolazione all’odio, all’attentato alla Costituzione e alle offese al popolo della Turchia, alla Repubblica turca e agli altri organi dello Stato.
Nato nel 1973 a Elazýð, nella regione del Kurdistan turco, Selahattin Demirtaş ha iniziato gli studi alla facoltà di Commercio Marittimo e Management dell’Università di Izmir. Costretto ad abbandonare il percorso universitario nel 1994, a causa di problemi politici, si è iscritto solo dopo alcuni anni alla facoltà di legge dell’Università di Ankara, dove si è poi laureato in giurisprudenza.
Per alcuni anni ha lavorato come avvocato freelance fino a che non è divenuto membro della Commissione esecutiva della sezione di Diyarbakýr della Associazione per i Diritti Umani turca.
Demirtaş è stato anche tra i fondatori del presidio di Amnesty International in Turchia.
Eletto per la prima volta nel 2007 nelle fila del Partito della Società Democratica (DTP), sinistra kurda, nel 2009 Demirtaş è stato indicato come co-segretario, insieme a Gültan Kýþanak, della formazione politica.
Rieletto nel 2011, è stato uno dei principali protagonisti dei colloqui di pace tra il governo turco e i rappresentanti della minoranza kurda.
Nell’agosto del 2014 è il candidato di BDP e HDP, entrambi partiti filocurdi, alle prime elezioni dirette per il presidente della Repubblica, arrivando terzo con il 9,77% dei voti.
Nel 2015 arriva per Demirtaş la terza rielezione in Parlamento dove ha guidato, fino all’arresto, l’HDP. Prima che molti di loro finissero in prigione, il Partito contava 59 parlamentari.
Demirtaş ha rappresentato per Erdogan, sin da prima che lo sfidasse alle presidenziali del 2014, una vera e propria spina nel fianco, soprattutto per il contrasto ai tentativi di autoritarismo e a iniziative legislative ritenute antidemocratiche. Come si apprestava a fare sul decreto che accresce i poteri presidenziali.
E visti i progressi del provvedimento in
Parlamento, dove proprio ieri ha compiuto un altro passo verso l’approvazione, la riforma costituzionale che apre la strada al presidenzialismo è ormai fatta.
L’assemblea parlamentare di Ankara ha infatti dato l’ok all’ultimo articolo del pacchetto di 18 modifiche che ora sarà sottoposto a un secondo e complessivo voto. Per l’approvazione del testo sono necessari 330 voti su 550. La riforma sarà poi sottoposta a referendum popolare.
Recep Tayyip Erdogan, che vuole assicurarsi il pieno potere senza l’impaccio delle interferenze parlamentari, ha giustificato l’ennesima svolta autoritaria con l’esigenza di una presidenza più forte per combattere il terrorismo.
Per protestare contro questo provvedimento sono tornati in piazza i ragazzi di Gezi Park.
In piedi contro la dittatura, così in decine hanno manifestato a Istanbul
come durante le dimostrazioni del 2013, quando si animò la ‘protesta silenziosa’ a piazza Taksim.
La forma di malcontento si sta ripetendo dunque con la stessa intensità e determinazione.
In tanti hanno scelto questo modo simbolico per dimostrare la propria contrarietà alla riforma
costituzionale presidenzialista, mentre sui social è stato lanciato l’hashtag #Ayagakalkiyoruz, ovvero ‘alziamoci in piedi’.
L’iniziativa, partita ieri, si ripeterà anche nei prossimi giorni. In migliaia continuano a darsi appuntamento, attraverso Twitter, Facebook e Instagram in qualsiasi luogo di ritrovo fino a quando non sarà concluso il secondo turno delle votazioni sulle modifiche della Costituzione. E c’è da aspettarsi che se queste proteste, una volta passata la riforma, non avessero fine qualcuno ad Ankara potrebbe decidere che il tempo del dissenso non prosegua oltre.


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