Venezia e i fantasmi di Fellini (racconto di Natale)  

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Poiché Pietro Citati, sul Corriere della Sera, si è adoperato a rianimare il fantasma di un film mai realizzato da Federico Fellini su Venezia, mi sembra quasi doveroso, avendo collaborato a quel progetto, offrire agli appassionati del regista riminese il mio contributo, ricordando come andarono veramente le cose. Poco prima della sua scomparsa il poeta Andrea Zanzotto con cui eravamo in affettuoso contatto, mi spedì un plico prezioso da lui conservato per quasi venti anni; era il brogliaccio di tutte le ricerche, gli appunti, le corrispondenze, gli abbozzi di scrittura, che Fellini stava raccogliendo per realizzare un film su città dei Dogi. E che credevo – temevo –  fosse andato smarrito, oppure rimasto sepolto, alla sua scomparsa, fra i documenti affastellati alla rinfusa nella cantina della sorella Maddalena. Si trattava di un progetto che Fellini aveva accarezzato negli ultimi anni, raccontare Venezia attraverso il modello dell’affresco a episodi già felicemente sperimentato per “Roma” (1972), e che si proponeva di rinnovare anche per altre città/galassie come Napoli o New York, ventri ribollenti di boli – sosteneva – simili a Ninive, Sidone, Babilonia, le leggendarie capitali in cui l’uomo fin dall’alba della Storia ha ricercato la propria aggregazione.

In una intervista del 1991, cioè venticinque anni fa, rilasciata all’edizione italiana di Playboy nel mese di agosto, il regista annunciava: «Vorrei fare un film su Venezia. Non una storia, ma tante storie, che compongano una sorta di mosaico. Insomma mi sembra che proprio il cinema abbia la possibilità di ricreare l’aspetto anche femminile di questa città straordinaria, le impressioni misteriose, fantastiche, soprattutto oniriche che Venezia, anche se la vedi per una ennesima volta, sempre ti comunica. Parlo ovviamente di una dimensione non quotidiana, ma di una memoria, di una nostalgia, di un presentimento, di un colore dell’anima. Questo è il progetto che più mi sta a cuore, per la mia affinità con quella città così poco reale e così assolutamente fantastica.»

Il film era un ritratto della città lagunare di metafisica e doviziosa visionarietà. La trama cinematografica si avvaleva di svariate suggestioni letterarie, Edgar A. Poe, Friederich Schiller, e perfino alcuni brani decisamente eterodossi tratti dall’autobiografia di Hugo Pratt. Insaziabile di racconti sulla Serenissima, Federico non soltanto compulsava Andrea Zanzotto, il poeta capace di regalargli la musica dei versi, prima ancora che Nino Rota rivestisse le immagini con la liquida sonorità delle sue note ammalianti; ma per continuare a incrementare il poderoso fascicolo, si faceva inviare racconti, aneddoti, rêverie da scrittori e giornalisti, primo tra tutti l’inesauribile Carlo Della Corte.

Aveva immaginato di calarsi con un batiscafo sotto le fondamenta di Venezia, attraversando in una misteriosa navigazione sottomarina quella foresta sommersa di milioni di palafitte che sostiene la più improbabile, onirica e scenografica metropoli del mondo.

L’approccio all’argomento, l’incipit, il pretesto della narrazione era tipico dell’autore; un anziano regista tornando a Venezia per un prestigioso riconoscimento, e forse con in mente un vago progetto di lavoro, ripensa a una donna amata in gioventù e cerca di rivederla, intessendo una tela di incontri, di improvvise illuminazioni, di sogni, di affannose ricerche, di apocalittiche visioni, dentro e fuori la percezione sensoriale e come sostenute da un inarrestabile flusso di coscienza. La storia si concludeva con un finale turbinoso sul Canal Grande, a Piazza San Marco, dove aveva luogo la rutilante e corrusca celebrazione del Nuovo Potere.

Esiste un carteggio tra Fellini e Della Corte ripubblicato da Fabrizio Borin e Roberto Ellero in un libricino intitolato Amor di Cinema (1956-1994).  Nell’affettuosa corrispondenza intercorsa fra lo scrittore e il regista  compaiono soprattutto le idee, i racconti, i miraggi che Delle Corte inviava quasi sistematicamente al regista, alla stregua di messaggi nella bottiglia. Sono materiali madidi di umori veneziani, enigmi, arcani, in cui lo scrittore affondava da sempre la sua ispirazione, e che già aveva radunato nel romanzo Di alcune comparse a Venezia. Il progetto viene ricordato anche da Alberto Ongaro messo in preallarme da Della Corte sulle intenzioni di Fellini: “Non avevamo tenuto conto che del cinema non ci si può fidare, – scrive il grande narratore  – avevamo dimenticato che su dieci progetti quando va bene si finisce per realizzarne uno, quando va male li si butta tutti. Non si sa di chi sia la colpa. Non si è mai capito, o almeno non l’ho capito io, e non l’ha capito neppure Carlo, nonostante gli sia andato così vicino. Forse il cinema è un fantasma che si incarna quando gli pare.”

Al tempo di Casanova (1976) era stato proprio Zanzotto, finissimo poeta, a comporre le varie ‘canzoni’ all’interno del film (Le Poesie e Prose Scelte, Mondadori, Meridiani), fra le quali il ‘recitativo veneziano’ che avvolge in una dolce cantilena, una ipnotica spirale d’incantesimo, l’inizio della storia cinematografica, quando la gigantesca testa di Venusia, durante il Carnevale, riaffiora enigmaticamente in superficie per sprofondare subito dopo, di nuovo, negli abissi fluidi e silenziosi:

Vera figura, vera natura,
slansada in ragi come ‘n’aurora,
che tutti quanti ti ne innamora…

……………………………………….

Mona ciavona, cula cagona
baba catàba, vecia spussona,
toco de banda, toco de gnoca,
squinsia e barona che a nu ne toca
par sposa e mare, gnora e comare,
sorela e nona, fiola e madona,
nu te ordinemo, in sudor e in laor,
che su ti sboci a chi te sa tor.

Venezia rivissuta dal poeta e dal regista come la ‘grande mona’, la femmina bagnata, il grembo risucchiante, dal quale Casanova (Fellini?) non aveva più saputo riemergere. Ma l’intrigo non finisce qui, anzi è da qui che prende inizio. Alla testa del progetto di Federico sulla città lagunare – rivelo un piccolissimo segreto – troviamo un singolare patron, un formidabile personaggio di quegli anni rampanti, verosimilmente attirato nell’impresa da Sergio Zavoli.

Si tratta di Raul Gardini, l’avventuroso genero di Serafino Ferruzzi da Ravenna, protagonista dall’affair Enimont e della lungimirante utopia del polo chimico italiano, il quale pochi mesi più tardi, finito nell’occhio del ciclone di Mani Pulite, nel luglio del 1992 si tolse la vita con un colpo di rivoltella. Ma le cose andarono davvero così? L’interrogativo resta ancora aperto per uno di quegli scandali o macchinazioni finanziarie di cui si finisce fatalmente per smarrire ogni traccia. Talvolta persino sotto il ponte dei Frati Neri.

Raul Gardini capitano di industria, uomo di fascino e iniziativa, faceva sorridente mostra di sé nell’atelier del pittore Rinaldo Geleng, fraterno amico di Fellini. Nello studio di Geleng a via Margutta, il ritratto spiccava senza fatica fra le tele appoggiate alla parete, e non solo per le dimensioni: l’impavido nocchiero appariva con il viso al vento, sfidante e superbo, le mani ben appoggiate all’imponente ruota del timone del Moro di Venezia, la leggendaria imbarcazione che nel ’92 aveva sfiorato la vittoria della America’s Cup.

Benché Gardini non si fosse mai avventurato prima nel business cinematografico, aveva però un forte legame con Venezia. Era proprietario sul Canal Grande di Palazzo Dario, aristocratica dimora marchiata da un sinistro maleficio: i suoi proprietari erano invariabilmente incorsi in oscure disgrazie, se non addirittura scomparsi in circostanze di morte violenta. Quando in seguito alla morte del padre, Eleonora Gardini mise in vendita il palazzo, lo stesso  Woody Allen  sembrava seriamente interessato all’acquisto, salvo ripiegare in precipitosa ritirata una volta scoperta la preoccupante superstizione. Eleonora, bellissima primogenita di Raul, era stata sposata con  Giuseppe Cipriani, figlio di Arrigo, il fondatore e proprietario dell’Harri’s Bar. Di cui si legge nel trattamento del film:

Un altro luogo affascinante e misterioso è anche l’Harry’s Bar dove convergono il jet-set internazionale e gli aristocratici veneziani e dove si può trovare di tutto, dagli sceicchi agli spacciatori di droga, dalle puttane più sontuose a scrittorelli stranieri in cerca di ispirazione.”

Tuttavia lo scenario della pellicola si sposta quasi subito al di sotto dell’immobile superficie marina. Venezia, imputridita nelle fondamenta, sta correndo il serio rischio di  un collasso, di un’immane catastrofe. Un ingegnere idraulico olandese viene invitato dal governo a studiare disperati sistemi di salvataggio della città, verosimilmente condannata a scomparire nella laguna.

Come una nuova incarnazione del Ca­pitano Nemo l’ingegnere olandese nella sua ba­tisfera munita delle più sofisticate apparecchiature per l’esplorazione subacquea viaggia giorno e notte attraverso le misteriose fondamenta della cit­tà. Ai fasci di luce delle potenti lampade del suo piccolo sottomarino e di quelle dei suoi sommozzatori-polombari, esploratori di un paese sommerso, appare un paesaggio inimmaginabile nelle sue grandiose prospettive fantascientifiche: uno sterminato labirinto di palafitte, tra piramidali basamenti corrosi e marci e immense rovine di palazzi affondati, dove milioni di topi e una spettrale fauna marina vivono in una mel­mosa oscurità che a tratti vibra tutta per il passaggio in superficie di motoscafi e battelli.”

Svariate erano le fonti letterarie che avevamo deciso con Fellini di travasare nella sua opera su Venezia; dal “Crollo della Casa degli Usher” a “La Maschera della Morte Rossa” di E.A. Poe, passando anche per Schiller e perfino disinvoltamente, come ho già accennato, per Hugo Pratt. Si legge nel trattamento: “I racconti di Poe e di Schiller diventano degli incontri in cui ci si imbatte nella laguna non diversamente dal batiscafo dell’ingegnere idraulico o dalla convention pubblicitaria. Mi pare che la novità della proposta possa proprio far perno su questa apparente disomogeneità, quasi che il racconto intenda presentarsi con la stessa geografia della laguna, un equilibrio di terra e di mare, di vuoti e di pieni, che è poi anche il gioco che contraddistingue l’architettura veneziana, il suo stile inquietante e leggero, la trina infida e attraente dei suoi palazzi. Un gioco di ombre e di luci, un racconto visionario, fantastico, stratificato, metà in costume, metà attuale, metà inventato, come se in quell’unico elemento liquido su cui galleggia Venezia si fossero per l’appunto dissolti i confini del tempo e dello spazio, e tutto convivesse, compresente, in un unico inviolabile mistero.”

Ecco dunque di nuovo incombere l’arcano, elemento caro all’artista riminese, che nella traduzione immaginifica si sarebbe tinto seducentemente dei luccichii dorati di Vittore Carpaccio insieme ai bagliori di Tiziano e ai pastelli del Canaletto e del Bellotto. La trama spaziava dal batiscafo d’alta profondità, alla flotta di elicotteri che atterrano su Piazza San Marco per sbarcarvi il nuovo tycoon nazionale, circondato dalla sua corte di stelline mediatiche:

E intanto il re delle televisioni private sta comprando quasi tutta Venezia; compra l’Ar­senale, la Madonna della Salute, i palazzi più belli e i principali alberghi. È tutto suo; e vuole fabbricare un Bucintoro e attraversare il Canal Grande ribattezzato Canale Cinque. Ha radunato a Venezia tutti gli amministratori, i consiglieri, gli agenti, i pubblicitari, tutti raccolti per festeggiare lui, che arriva in eli­cottero portando in premio l’ultima creatura del suo impero di spettacolo, una stupenda ragazza (un secondo, fondamentale personaggio femminile del film) che, giovanissima, ha acquistato una notorietà improvvisa e clamorosa reclamizzando in TV gli apparecchi igienici di una industria di provincia.”

Purtroppo il destino della città sembra ormai fatalmente segnato: “E’ della notte la notizia che un altro vecchio palazzo è scivolato dentro la laguna. Assistiamo al crollo, alla lenta sparizione, della bellissima facciata dell’edificio che scivola scomparendo nelle acque torbide, circondata dai natanti e dalle batisfere della troupe degli addetti ai lavori.”

Uno scenario apocalittico che tuttavia non sembra minimamente disturbare l’apparato del potere mondiale impegnato a celebrare i propri fasti:

“Ma altri elicotteri stanno volteggiando nel cielo, lenti, guardinghi, minacciosi. Sono eli­cotteri militari, che insieme a motovedette, e presumibilmente a sottomarini, sorvegliano sulla sicurezza del summit che si sta svolgen­do a Torcello fra i sette grandi della Terra. E tutto viene teleripreso dal network del nuo­vo padrone di Venezia, il summit degli uomi­ni politici, il crollo dei palazzi, le vasche da bagno a forma di gondola, l’ultima trovata  per lanciare nuovi articoli igienici con la ragazza gondoliera.”

Questa Venezia di Fellini, mai realizzata sullo schermo, ci investe come una metafora inaspettata e inquietante. Qualcosa che ci riguarda da vicino. A conferma che gli artisti sono quasi sempre anche profeti, essendo la loro dimensione temporale più fluida: passato e futuro debordano dai labili  confini assegnati,  si lambiscono, si incontrano, finiscono per fondersi nella raffigurazione del presente producendo talora immagini non del tutto comprensibili al primo apparire. Quest’anno, ormai prossimo allo spirare, si sono celebrati (soltanto a Rimini per la verità, dove tuttavia è ancora visibile una mostra al Museo della Città) i trent’anni dall’uscita del Casanova di Fellini, un’occasione davvero rara per riflettere su un tema tanto attuale e affascinante.


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