Sogni e speranze di una generazione costituente

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Analisti e commentatori, improvvisamente, hanno scoperto la questione giovanile. Quell’81 per cento di NO fra i giovani tra i 18 e i 34 anni, in un referendum costituzionale la cui battaglia si è giocata pressoché interamente sullo squallido terreno del populismo, assai più che i sui contenuti di una cattiva riforma da respingere sia nel metodo che nel merito, dice infatti molto sulla mia generazione.
Dice, ad esempio, che derubricare un voto così compatto e massiccio a favore del respingimento della modifica di ben quarantasette articoli della Costituzione non ha a che fare unicamente con la rabbia degli ultimi e degli esclusi, pur legittima nei confronti di un governo che ha rappresentato solo gli interessi delle banche, della finanza, delle lobby e di una cospicua serie di amici degli amici; attiene, al contrario, a una consapevolezza diffusa del fatto che la Costituzione è ormai l’unico bene comune che ci è rimasto, l’ultimo baluardo prima della barbarie e della perdita definitiva di sovranità popolare, caposaldo tra i più calpestati della nostra Carta.
E allora andiamo indietro nel tempo, ripercorriamo le tappe di questa presa di coscienza e di questo progressivo innamoramento dei giovani per tutto ciò che profuma di comunità, di solidarietà e di fratellanza, contro l’aberrazione di una stagione conformista ed escludente nella quale l’avidità di chi ha di più ha spinto sempre più in basso i ceti sociali più deboli.

Si parte da Genova, nel 2001, quando il cosiddetto universo “no global”, ossia coloro che chiedevano giustamente una globalizzazione con regole certe e non appannaggio della finanza e dei mercati manifestò nel capoluogo ligure in occasione del G8, vedendo l’infiltrazione di alcune pericolose frange di estremisti, i cosiddetti “black bloc”, e subendo la perdita del giovane Carlo Giuliani e lo scempio della scuola “Diaz” e della caserma di Bolzaneto.
Genova, quindici anni fa: il movimento “no global” era nato a Seattle nel ’99 e già allora denunciava i guasti delle politiche clintoniane, a cominciare dall’abolizione del Glass-Steagal Act e dalla progressiva finanziarizzazione dell’economia, alla base della crisi dei mutui subprime e del disastro globale iniziato nel biennio 2007-2008 e tuttora in corso.

All’epoca vennero insultati, picchiati, considerati dei trogloditi, dei figli dell’età delle caverne, dei poveri illusi, ingenui e contrari a ogni forma di modernità; oggi che le loro stesse rivendicazioni le porta avanti papa Francesco, oggi che si è capito che il liberismo è un’ideologia bestiale e, in alcuni casi, addirittura assassina, oggi che, con la sconfitta della signora Clinton, la Brexit e la crisi globale della socialdemocrazia, la sinistra ha preso finalmente atto che le magnifiche sorti e progressive della Terza via, con il suo misto tra un welfare insufficiente e un capitalismo sfrenato, privatizzazioni come se piovesse e deregulation profusa a piene mani, altro non sono state che le cause principali della sua caduta nell’abisso, oggi il mondo sta prendendo finalmente atto che quei ragazzi di inizio millennio erano dei visionari o, per meglio dire, erano gli unici che avevano visto e denunciato per tempo un male assoluto cui quasi nessuno riesce attualmente a far fronte, ossia l’aumento spropositato delle diseguaglianze e la crescita di un malessere sociale, dovuto alla povertà e all’emarginazione di intere categorie, che ha condotto a percentuali inquietanti quelle forze politiche che puntano su una sorta di anti-mondializzazione protezionista all’insegna del nazionalismo, in contrapposizione a un internazionalismo fasullo che non ha nulla di cosmopolita se non per quanto concerne i grandi capitali e il trasferimento dei medesimi da un angolo all’altro del pianeta, a seconda di dove si pagano meno tasse.
Quei ragazzi che manifestarono a Genova, che si ritrovarono un anno dopo a Firenze, che dissero no alle guerre di Bush e animarono, in Italia, la stagione dei Girotondi, contro la drammatica stagione berlusconiana delle censure, dei bavagli e delle leggi ad personam e delle leggi vergogna, quei ragazzi sono i trentacinquenni di oggi: privi di prospettive, con occupazioni precarie o saltuarie, stipendi inadeguati e condizioni di sfruttamento e di umiliazione che mettono in discussione il concetto stesso di dignità della persona.

Quei ragazzi che hanno attraversato la crisi, sofferto a causa degli errori di Treu e dell’ideologia anti-sindacale di Maroni e Sacconi, che oggi manifestano e scioperano in Francia contro la Loi travail di un presidente talmente miope nella sua azione politica che il suo stesso partito ha preferito non ricandidarlo, quei ragazzi che a New York hanno animato le proteste di Occupy Wall Street a “Zuccotti Park”, quei ragazzi accampati alla Puerta del Sol di Madrid o felici di votare Podemos, Syriza o il movimento cittadino di Ada Colau a Barcellona, quei ragazzi che hanno preso la tessera del Labour per porre fine al blairismo e scegliere un leader che li rappresentasse davvero, ossia Jeremy Corbyn, quei ragazzi che in America apprezzano e avrebbero votato volentieri per Bernie Sanders, quei ragazzi costituiscono almeno due generazioni e meritano rispetto.
E se ci troviamo a fare i conti con un mondo nel quale i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti e gran parte della classe dirigente del pianeta è composta da ultra-sessantenni o addirittura da settantenni è perché in mezzo c’è un vuoto spaventoso, di cui le primarie repubblicane e non solo rappresentano l’emblema.
Quanto alla nostra generazione, privata di ogni speranza, di ogni ambizione positiva, di ogni prospettiva e persino della possibilità di illudersi e magari, un domani, di cadere in preda al disincanto e allo sconforto, questa nostra generazione si considera partigiana, si iscrive all’A.N.P.I., si batte in difesa dell’acqua pubblica e del patrimonio artistico, culturale e paesaggistico, lotta contro il nucleare e le leggi indegne sulla giustizia, volte unicamente a rendere più difficoltoso il compito dei magistrati: insomma, nel silenzio dei media e dei soloni che ci ammanniscono ogni giorno le proprie perle di saggezza, si è sviluppata una splendida generazione costituente.
Non avremo la saggezza e la cultura politica e giuridica di Nenni, Parri, Dossetti, Pertini e Calamandrei ma abbiamo ben presente chi si batte nel nostro interesse e chi sta tentando, invece, di portarci via anche l’ultima stilla di dignità che ci è rimasta, a cominciare da quella, imprescindibile, del lavoro, troppe volte dimenticata pure nelle migliori analisi sul tema.

Una generazione in lotta, dunque, una generazione che ascolta con piacere i consigli di chi ha maggiore esperienza e quasi si commuove quando sente le canzoni del neo-premio Nobel Bob Dylan o di Joan Baez, quando muore Muhammad Ali e il vecchio Sanders le racconta quel periodo epico di marce per i diritti e per l’emancipazione dei neri, quando i nonni le parlano della Resistenza e della fatica e degli sforzi compiuti per riconquistare la democrazia e la libertà, una generazione così, insomma, una generazione che non si accontenta di slogan, slide, frasi fatte e luoghi comuni, che ha bisogno di sincerità, di autenticità e di un’effettiva rappresentanza delle proprie ansie e delle proprie esigenze.
Questi sono i Partigiani del Terzo Millennio che, dall’Onda studentesca in poi, non hanno mai smesso di battersi, di cercare, di costruire, di allearsi con insegnanti e lavoratori, di difendere la scuola pubblica e l’università, i posti di lavoro e i diritti sociali e civili, di riprendere il concetto di don Milani secondo cui il problema degli altri è uguale al mio e di fare attivamente politica, in qualunque modo, opponendosi all’egoismo, all’individualismo e a tutti coloro che non hanno ancora compreso quanto siano tragiche e insostenibili le disuguaglianze salariali e di vita venutesi a creare nell’ultimo trentennio.
E così, questa generazione ribelle ha detto NO e proposto un’alternativa, ha chiesto ascolto e posto i propri problemi al centro del dibattito politico. Ora, o la sinistra avrà il coraggio, l’umiltà e il buonsenso di fare proprie queste istanze, aprendosi ai movimenti e smettendola di blaterare di “populismo”, coccolando nel frattempo solamente le fasce sociali più abbienti, o avrà smarrito per sempre il proprio ruolo.
Ricostruire la società, renderla più buona, più giusta, meno violenta, più a misura d’uomo e far sì che nessuno sia lasciato indietro è una missione che può valere un secolo; anzi, è il senso stesso, la chiave interpretativa della fase storica che stiamo vivendo e di quelle che verranno. Se questi valori non saranno riaffermati quanto prima, non ci salveremo da una destra molto simile a quella della prima metà del Novecento e non ci saranno proclami o narrazioni ottimistiche in grado di scongiurare tutto ciò, in quanto il mito ingannevole della disuguaglianza benefica e creatrice di opportunità è durato fin troppo, producendo disastri che ormai sono sotto gli occhi di tutti.


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