Renzi ferito a sinistra

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Il Partito della nazione ipotizzato da Renzi non gli ha portato fortuna. O meglio, nelle elezioni europee del 2014, quelle del trionfale 40,8% dei voti, l’allora presiedente del Consiglio e segretario del Pd riuscì ad intercettare molti consensi degli elettori delusi del centro-destra e del cinquestelle, sommandoli a quelli di sinistra. Ma poi, per la debole ripresa economica e per la marea dell’immigrazione irregolare, crebbe la protesta sociale e cominciò il declino nelle varie elezioni regionali e comunali, fino ad arrivare alla sonora sconfitta dello scorso 4 dicembre, nel referendum sulla riforma costituzionale del governo.

«Torno a casa davvero… Qualche commentatore finge di non vedere l’elenco impressionante di riforme che abbiamo realizzato». Matteo Renzi, lasciata la presidenza del Consiglio, l’11 dicembre ha scritto una lettera-confessione su Facebook. Un occhio era rivolto al passato («Sono stati mille giorni di governo fantastici») e uno al futuro («Non ci stancheremo di riprovare a ripartire»).

Il segretario del Pd ha perso la sua scommessa di governo quando il 4 dicembre ha vinto il “no” al referendum sul superamento del bicameralismo paritario: è affondata la riforma centrale del suo esecutivo e si è dimesso da presidente del Consiglio. Tuttavia la partita ancora non è finita. Renzi ha lasciato Palazzo Chigi, però resta segretario del Pd almeno fino al prossimo congresso, previsto alla fine del 2017.

Intende “riprovare a ripartire”. Non sarà semplice. Deve fare i conti con le opposizioni e con le sinistre del Pd galvanizzate, per motivi diversi, dal successo referendario del “no”. Deve affrontare la rivolta della sinistra politica interna, esterna e di quella sociale. Questa volta il tema dello scontro non sarà la riforma costituzionale, ma il lavoro in tutte le sue declinazioni. Il lavoro del resto, storicamente, è una questione fondamentale per una forza di sinistra, sia dal punto di vista del numero degli occupati sia da quello dei diritti. Roberto Speranza si è candidato ufficialmente alla segreteria del partito contro Renzi, chiedendo “un cambio di rotta” e  definendo la sua sfida quella di “Davide contro Golia”. Il leader della minoranza bersaniana del partito ha detto basta a “un uomo solo al comando”, vuole spostare dal centro a sinistra il Pd, rappresentando “le periferie” e “i lavoratori”.

Non solo.  Minaccia di affondare il governo di Paolo Gentiloni, amico e già stretto collaboratore di Renzi, sul tema dell’occupazione. Speranza ha annunciato a sorpresa: «Via i voucher o sfiducia» al ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Più esattamente: la minoranza bersaniana voterà in Parlamento in favore della mozione di sfiducia delle opposizioni, presentata contro Poletti, se non verranno cancellati (o fortemente ridimensionati) i voucher, cioè i buoni con i quali si paga il lavoro occasionale. L’ex capogruppo del Pd alla Camera ha precisato: a fine 2016 arriveranno intorno all’astronomica cifra di 150 milioni, favorendo “la precarietà” del lavoro. Ora la parola passa a Poletti, al presidente del Consiglio Gentiloni e a Renzi. Il problema è se e come rivedere i voucher. E non finisce qui. Il lavoro è un pericoloso fronte scoperto a sinistra per il segretario del Pd. L’ex sindaco di Firenze deve fare attenzione ad un altro, possibile e rischioso referendum: quello chiesto dalla Cgil per abolire di fatto il Jobs Act (la confederazione sindacale punta soprattutto a mettere da parte i voucher e a ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sulla tutela dai licenziamenti, cancellato per i nuovi assunti). Quella del mercato del lavoro è una riforma centrale del suo esecutivo dei “mille giorni”: la minoranza del partito l’ha attaccata perché “favorisce i licenziamenti”, mentre lui l’ha difesa. Anzi, il segretario del Pd ha respinto l’accusa che sia una riforma liberista di destra e l’ha rivendicata come un provvedimento di “sinistra”, perché combatte il precariato e la disoccupazione con il contratto di lavoro a tutele crescenti in favore dei giovani.

La Corte Costituzionale dovrebbe esaminare l’ammissibilità delle richieste di referendum sul Jobs Act il prossimo 11 gennaio. Paolo Gentiloni e Giuliano Poletti sarebbero intenzionati a correre ai ripari, nel caso del disco verde della Consulta, per evitare il referendum. Il presidente del Consiglio e il ministro del Lavoro, in particolare, starebbero valutando una nuova normativa per combattere l’abuso dei buoni lavoro (da gennaio ad ottobre scorso ne sono stati usati 121 milioni).

Il primo bersaglio del referendum della Cgil sarebbe Renzi, che sembrerebbe favorevole anche a cercare di ottenere le elezioni politiche anticipate entro la prossima primavera, pur di far slittare di un anno il referendum sul mercato del lavoro. La consultazione referendaria è ad alto rischio: la grande maggioranza degli italiani potrebbe votare per l’abrogazione. Un risultato del genere segnerebbe la definitiva disfatta del segretario del Pd.

Le novità politiche non sono mancate nei quasi tre anni di governo Renzi. Le riforme strutturali in gran parte sono state affondate dalla Corte Costituzionale e dal referendum costituzionale. Tra le principali innovazioni è rimasto in piedi solo il Jobs Act. Certo prima non si era mai visto un referendum promosso dalla Cgil, sindacato storicamente vicino al Pci-Pds-Ds-Pd, contro una legge realizzata da un governo guidato da un segretario dei democratici. E non si era mai visto un presidente del Consiglio e segretario del Pd come Renzi attaccare (ricambiato) la segretaria della Cgil Susanna Camusso ed elogiare (ricambiato) l’amministratore delegato della Fiat Chrysler Sergio Marchionne. Il segretario del Pd deve curare la sue ferite a sinistra.


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